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16 marzo 1978, il sequestro di Aldo Moro: «Non è ancora emersa tutta la verità»

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ROMA, 16 MARZO (1978) – «Sui fatti di via Fani non è ancora emersa tutta la verita: l’ipotesi che ci stata una sorta di congiura si fa sempre più robusta», questa l’amara posizione di Ferdinando Imposimato, giudice istruttore del processo Moro dal 1978. Infatti erano le 9,02 del 16 marzo 1978, quando – in via Fani all’incrocio con Via Stresa, nel quartiere Trionfale a Roma – un commando composto da circa 19 brigatisti (9 per sparare, 6 alla guida e 4 di copertura ) dà il via alla sua azone, rapendo il Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, e uccidendo i cinque componenti della scorta: il Maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi, l’appuntato Domenico Ricci, il Brigadiere Francesco Zizzi, l’agente Raffaele Jozzino e l’agente Giuliano Rivera. Solo tre minuti per una delle pagine più buie della storia italiana.


In base alle testimonianze dell’epoca – sul luogo dell’agguato – prima giunse una Fiat 132 blu metallizzato, con a bordo tre persone, su cui venne fatto salire poi l’ostaggio. Delle tre persone, una si fermò ad aspettare, mentre le altre due percorsero a piedi via Stresa, trasportando una grande borsa. Immediatamente dopo – secondo le testimonianze raccolte – due 128 scesero in contromano lungo via Fani, procedono a passo d’uomo. Queste due vennero raggiunte anche da una Fiat 128 bianca targata Corpo Diplomatico (alla cui guida era Mario Moretti, leader e mente organizzativa del gruppo ), la quale aveva il copito di frenare bruscamente e causare il tamponamento – all’incrocio tra via Fani con via Strena – tra l’Alfetta della scorta e la 130 che tasportava Moro.

A controllare l’incrocio, armata di un mitra e di una paletta per fare defluire il traffico, Barbara Balzerani. Alla guida dell’auto sulla quale Aldo Moro viene caricato dopo la sparatoria Bruno Seghetti. I quattro brigatisti facenti parte del gruppo di fuoco, che spararono raffiche di mitra contro l’Alfetta, uccidendo gli uomini della scorta: Franco Bonisoli, Raffaele Fiore, Valerio Morucci e Prospero Gallinari. «In tutto vengono sparati 97 colpi d’arma da fuoco (oltre ai due sparati da Iozzino), ma una sola arma, un mitra Fna 43, ne spara 49, più della metà. (…) A sparare, per loro stessa ammissione, furono solo quattro terroristi (Gallinari, Morucci, Fiore e Bonisoli) e a tutti il mitra s’inceppò “subito”, “quasi subito” o dopo aver sparato “mezza raffica”, tanto che tutti indistintamente dovettero impugnare la seconda arma, una pistola, che avevano con loro»[1]. Alle ore 9.05, nella sala operativa della questura di Roma arriva la prima telefonata da parte di un anonimo al 113 che dice: «In via Fani si sono uditi diversi colpi di arma da fuoco». Un minuto più tardi una chiamata più precisa: «Hanno rapito l’onorevole Moro»[2].

Resta il mistero di una moto Honda con in sella due uomini presente, secondo tre testimoni, sul luogo della strage, cosa confermata dal già citato Ferdinando Imposimato, che ha dichiarato, «Ferma restando la responsabilità dei brigatisti quali esecutori della strage, resta sempre il mistero inquietante di quella motocicletta Honda. I terroristi non ne hanno mai indicato il conducente, che potrebbe essere stato uno dei membri della Raf». Episodio, ancora oggi negato dagli stessi brigatisti secondo cui, «non avevamo nessuna moto in via Fani»[3].

Per il giudice istruttore del caso Moro, Rosario Priore: «Quello della motocicletta presente sul luogo dell’agguato è uno degli elementi che bisogna ancora chiarire del tutto per fare piena luce su quell’episodio terroristico. Ricordo che si parlò della presenza di una persona che dava ordini in tedesco, del resto quell’operazione ricalcava il modus operandi classico della Raf. Le Br si incontravano con i terroristi della Raf, non si può quindi escludere che vi fosse qualche componente straniero nel commando. Diversi indizi portano a questo, anche se non ci sono certezze».

Per questo, ha concluso Priore: «Bisogna continuare a cercare, ad indagare fino ad arrivare a chiarire tutti gli aspetti ancora controversi di quella vicenda. Quando si apriranno determinati archivi, e mi riferisco a quelli dei Paesi dell’Est, si potranno intravedere nuovi spiragli per fare piena luce non solo su quest’episodio ma anche su tutta la stagione degli attentati e delle stragi».

Fonti:
1 [Baldoni-Provvisionato 2009]
2 [Bianconi 2008]
3 [Cds 16/3/1998]
Altre fonti: Adnkronos; [Purgatori-Zincone, Cds 17/3/1978], lastoriasiamonoi.rai.it.

Fotogramma: frontedelblog.it

Rosy Merola – SinergicaMentis

Rosy Merola

Definisco il mio percorso professionale come un “volo pindarico” dalla Laurea in Economia e Commercio al Giornalismo. Giornalista pubblicista, Addetta stampa, Marketing&Communication Manager, Founder di SinergicaMentis. Da diversi anni mi occupo della redazione di articoli, note e recensioni di diverso contenuto. Per il percorso di studi fatto, tendenzialmente, mi occupo di tematiche economiche. Nello specifico, quando è possibile, mi piace mettere in evidenza il lato positivo del nostro Made in Italy, scrivendo delle eccellenze, start-up, e delle storie di uomini e donne che lo rendono speciale. Tuttavia, una tantum, confesso di cadere nella tentazione di scrivere qualcosa che esula dalla sfera economico-finanziaria (Mea Culpa!). Spaziando dall'arte, alla musica, ai libri, alla cultura in generale. Con un occhio di riguardo nei confronti dei giovani esordienti e di quelle realtà che mi piace definire "startup culturali". Perché, se c'è una frase che proprio non riesco a digerire è che: "La cultura non dà da mangiare". Una affermazione che non è ammissibile. Soprattutto in Italia.