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Libri, “Ho inciampato e non mi sono fatta male”: la testimonianza della scrittrice Miriam Rebhun sulla shoah

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«La Shoah, nonostante tutto, è stata un esperimento fallito. Perché gli ebrei e tutte le minoranze che sono state colpite – sono state sì colpite duramente – ma non si sono estinte». Questo è uno dei messaggi forti che la scrittrice Miriam Rebhun dà, attraverso il suo libro “Ho inciampato e non mi sono fatta male”. Un libro in cui l’autrice, attraverso la ricerca e la ricostruzione della storia di una parte della propria famiglia – quella paterna, sprofondata nel buco nero della Germania nazista – è andata alla riscoperta delle proprie radici. Alla riscoperta della memoria, che rappresenta la nostra forza e che ci permette di costruire, di dare spessore e dignità al nostro essere. Perché, attraverso la storia passata, è possibile lavorare sul presente.

Questo perché, come sosteneva Cicerone (in De Oratore, II): «Historia magistra vitae». La Storia è maestra di vita. Così, il libro “Ho inciampato e non mi sono fatta male” e la sua autrice, rappresentano un documento storico. In quanto tale, meritano attenzione. Perché non dobbiamo dimenticare la Shoah, lo sterminio degli ebrei, affinché questo non accada più. Per porre un argine all’egoismo e all’indifferenza.

A tal proposito, come aveva risposto Primo Levi – in una lettera che è stata pubblicata (il 23 gennaio 2015) dal giornale “La Stampa” – ad una bambina che gli aveva chiesto come potevano essere così cattivi i tedeschi, nel seguente modo: «Piuttosto che di crudeltà, accuserei i tedeschi di allora di egoismo, di indifferenza, e soprattutto di ignoranza volontaria perché chi voleva conoscere la verità poteva conoscerla e farla conoscere».

In sintesi, «un solo grande silenzio», come recita uno dei versi della canzone “Auschwitz” di Francesco Guccini. Un silenzio assordante sulla Shoah che – continuando ad attingere dalla penna di Primo Levi«se comprendere è impossibile, conoscere è necessario». Per questo diventa essenziale dare voce a tale silenzio, anche attraverso il libro di Miriam Rebhun, che può essere elevato al rango di fonte storica. Infatti, per soddisfare il bisogno di conoscere la storia della propria famiglia, dei nonni paterni – di cui non aveva mai visto neanche una fotografia – la scrittrice ha iniziato a cercare fonti e documenti storici.

Così, attraverso il libro, l’autrice è riuscita a ricostruire l’anello mancante, l’anello di congiunzione tra la generazione dei nonni paterni e quella che la vede protagonista, ovvero la generazione del padre, ucciso a soli 29 anni: «Mia madre era rimasta vedova a 23 anni. Mio padre era rimasto ucciso durante un attentato in Palestina. A seguito di ciò – racconta la Rebhun – io e mia madre avevamo fatto ritorno a Napoli, a casa dei miei nonni materni. Qui sono stata accolta con tanto affetto, ma ero cresciuta in una casa di adulti. La casa di una famiglia di reduci: prima dalle leggi razziali, dalla guerra dopo, oltre che dal lutto per la morte di mio padre. Quindi argomenti, dal punto di vista esistenziali, terribili. Allo stesso tempo, accanto a questi discorsi tristi, a casa di mia mamma circolavano i racconti della guerra. In particolare, i racconti del periodo in cui la mia famiglia era stata sfollata da Napoli per sfuggire ai bombardamenti in un paese del casertano – Tora e Piccilli – vicino Cassino. Qui, per una serie di circostanze, avevano trovato rifugio una sessantina di ebrei. Un paese che si rivelò essere molto protettivo nei nostri riguardi. Infatti, quando arrivarono i tedeschi, nessuno dei suoi abitanti disse: qui ci sono degli ebrei».

Excursus storico del proprio nucleo familiare che – a partire dal 2010 – da bisogno privato, si è trasformato in testimonianza indiretta sulla Shoah, diventando oggetto del suo libro. Un documento da lasciare in eredità alle generazioni future. Questo anche in concomitanza dell’istituzione da parte della Repubblica italiana – con la Legge 20 luglio 2000, n. 211 – del “Giorno della Memoria” («La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati»).

 «Per me, cittadina italiana di religione ebraica, la Legge 20 luglio 2000, n. 211 ha rappresentato l’occasione per offrire un apporto alla società civile. Nel momento in cui io mi reco nelle scuole a raccontare la storia della mia famiglia – di quella paterna e materna – lo faccio principalmente come cittadina italiana. Perché penso che, raccontando tale storia, questa possa servire alle giovani generazioni italiane, per valutare gli errori del passato e per porsi – principalmente – contro ogni forma di dittatura, di pregiudizio e di razzismo. Quindi, nel momento in cui io ed altre persone andiamo nelle scuole per raccontare le nostre storie, ciò non ha assolutamente una valenza privata. Non lo facciamo perché vogliamo che le persone piangano sulle nostre storie, ma vogliamo che – da quest’ultime – nascano delle specie di anticorpi, che difendano tutte le persone – non solo gli ebrei – che soffrono per il razzismo, per le discriminazioni e per le intolleranze. Non è una “passerella”, ma un modo per rendere un servizio nel Paese in cui viviamo, di cui siamo cittadini e di cui rispettiamo le leggi», così ha sostenuto la stessa Miriam Rebhun, nel corso di una delle presentazione del suo libro.

Inoltre, ricollegandosi ai luoghi simbolo dell’Olocausto, come Auschwitz, la scrittice ha puntualizzato: «Non dobbiamo mai dimenticare che l’Italia fascista ha partecipato attivamente alla Shoah. Accanto ai luoghi indicati dai ragazzi, aggiungerei altri presenti in Italia, come la Risiera di San Sabba (lager nazista, situato nella città di Trieste) e le Fosse Ardeatine, alle quali – con grande sensibilità – il nuovo Presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, si è recato appena eletto. Perché è da lì che inizia il riscatto dell’Italia. Rendendo omaggio a quelle vittime, in quel momento, noi guardiamo alla vita che viene dopo. Guardiamo all’Italia democratica, all’Italia repubblicana, l’Italia che – nell’art. 3 della Costituzione – bandisce ogni forma di razzismo».

Nel buio della sua storia, comunque, Miriam Rebhun è riuscita a trovare un significativo lampo di luce: «La mia esperienza di bambina, è caratterizzata da due aspetti: da una parte la violenza, la morte, la sopraffazione, dall’altra parte questa situazione era stata illuminata dal comportamento solidale che c’era stato intorno alla mia famiglia materna. Tutto ciò mi ha fatto crescere con l’idea che non c’è niente di assolutamente nero e niente di assolutamente bianco».

reb.1Testimonianza, quella della Rebhun, che raggiunge il momento più toccante quando l’autrice spiega il perché della scelta del titolo “Ho inciampato e non mi sono fatta male”. A tal riguardo, la scrittrice ha spiegato il significato di “pietra di inciampo” (in tedesco Stolpersteine). Una iniziativa lanciata dell’artista tedesco Gunter Demnig e che consiste nel collocare davanti alle abitazioni degli ebrei deportati, nel selciato stradale delle città, delle pietre – simili ai nostri “sanpietrini” – muniti di una piastra in ottone con una incisione. Un modo per mantenere viva la memoria dei cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti. “Pietra di inciampo” che lei stessa ha voluto collocare in una traversa della città Berlino – PoshingerStraße n°14, dove si trovava la casa di residenza della famiglia paterna (che non esiste più) – in memoria della nonna Frida. Sulla sua Stolpersteine, poche, scarne e significative parole: nome e cognome, data di nascita (1891), anno di deportazione (1942), luogo in cui è morta (Raasiku, comune rurale dell’Estonia settentrionale, vicino alla città di Tallinn). Infine, la parola “Ermordet”: uccisa.

Un atto d’amore nei confronti della nonna, che è diventato un atto d’amore anche nei confronti delle generazioni future, a cui viene affidata la responsabilità di mantenere viva la memoria della Shoah. Affinché non si assista mai più a simili orrori. Per impedire che si inciampi ancora – scusate il gioco di parole – in ulteriori “pietre di inciampo”. Per evitare che, di nuovo, si assista all’egoismo, all’indifferenza e all’ignoranza volontaria di chi sapeva e ha volutamente taciuto.

Rosy Merola

Rosy Merola

Definisco il mio percorso professionale come un “volo pindarico” dalla Laurea in Economia e Commercio al Giornalismo. Giornalista pubblicista, Addetta stampa, Marketing&Communication Manager, Founder di SinergicaMentis. Da diversi anni mi occupo della redazione di articoli, note e recensioni di diverso contenuto. Per il percorso di studi fatto, tendenzialmente, mi occupo di tematiche economiche. Nello specifico, quando è possibile, mi piace mettere in evidenza il lato positivo del nostro Made in Italy, scrivendo delle eccellenze, start-up, e delle storie di uomini e donne che lo rendono speciale. Tuttavia, una tantum, confesso di cadere nella tentazione di scrivere qualcosa che esula dalla sfera economico-finanziaria (Mea Culpa!). Spaziando dall'arte, alla musica, ai libri, alla cultura in generale. Con un occhio di riguardo nei confronti dei giovani esordienti e di quelle realtà che mi piace definire "startup culturali". Perché, se c'è una frase che proprio non riesco a digerire è che: "La cultura non dà da mangiare". Una affermazione che non è ammissibile. Soprattutto in Italia.