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Tutela, innovazione, sinergia: questi gl’ingredienti del Made in Italy

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Il made in Italy, da tempo, rappresenta il simbolo del modello di industria all’italiana. Grazie a ciò, il Belpaese è riuscito a mantenere una posizione di rilievo sul fronte degli scambi internazionali. Negli ultimi tempi, però, sembra che il made in Italy stia facendo sempre più fatica ad allinearsi alla nuova e tenace concorrenza. A tal proposito, c`è da registrare l’affermazione di Pascal Lamy, direttore dell`Organizzazione mondiale del commercio, secondo il quale: «Ormai esiste il “Made in the World”, definizioni come “Made in Italy”, “in France” o “in China” sono qualcosa di obsoleto: come lo sono tutte le sigle tradizionali sui paesi di fabbricazione di un bene dell`industria».

Naturalmente, questa è una provocazione forte, che però ci induce a riflettere su ciò che sta accadendo e sui possibili interventi da realizzare. Senza alcun dubbio la situazione del nostro Paese non è per nulla brillante: alto debito pubblico, disoccupazione a livelli record, alta tassazione, preoccupanti carenze di infrastrutture, bassa spesa in ricerca, importanti settori industriali come la chimica, l’elettronica, la farmaceutica, in mano estera. Siamo in una fase di riorganizzazione. Se si vuole salvare il made in Italy dalla concorrenza dei paesi emergenti bisogna diventare gli specialisti dell’innovazione.

Ciò deve essere perseguito, in modo particolare, in quei settori e specializzazioni produttive, dove il nostro Paese eccelle. Queste nicchie produttive sono quelle che gli economisti definiscono le “Quattro A del made in Italy”, cioè Abbigliamento-moda, Arredo-casa, Alimentari-vini e Automazione-meccanica. Settori che, fino ad ora, hanno sostenuto la bilancia commerciale italiana, ma che non bastano più. Infatti, bisogna prepararsi ad una concorrenza sempre più dura, specie da parte della Cina, la quale si è già contraddistinta per le sue azioni di dumping (vendita di un bene o di un servizio su di un mercato estero ad un prezzo inferiore a quello di vendita o, addirittura, a quello di produzione del medesimo prodotto sul mercato di origine), prodotti contraffatti, svalutazione competitiva dello yuan cinese. A pagarne le spese sono stati i settori tradizionali del made in Italy: la meccanica, il tessile, le calzature, l’alimentare e l’arredo.

Per arginare alcune delle suddette problematiche, nel 2009 è stata emanata una legge: Il D.L. 135 del 25 settembre 2009, convertito dalla legge 166/2009, contenente l’art. 16 dal titolo “Made in Italy e prodotti interamente italiani”. La suddetta normativa si propone di garantire controlli più mirati da parte delle autorità competenti nella lotta alla contraffazione. A tal proposito, fondamentale è la “tracciabilità di filiera”, ossia la capacità di ricostruire la storia di un prodotto. Quest’ultima dovrebbe consentire di distinguere i prodotti “made in Italy”, da quelli che non lo sono. In riferimento a ciò, occorre fare un ulteriore distinguo, introducendo il concetto di “made by Italy”. Con questa espressione si intendono tutti quei prodotti la cui produzione e quasi interamente delocalizzata in altre aree: Europa dell’est, Asia, Bacino del mediterraneo.

Questa è una pratica in uso soprattutto nel settore della moda. Si parla di “metodo del Tpp”, acronimo che sta per “traffico di perfezionamento passivo”. Si tratta della lavorazione di un prodotto all’estero in regime di esportazione temporanea: fuori dall’Italia vengono realizzate soltanto alcune fasi intermedie, per poi effettuare le ultime rifiniture presso la casa madre. Per sopperire a ciò, è stata introdotta la legge 55/2010 contenente norme sulla riconoscibilità del luogo di origine dei prodotti tessili, della pelletteria e calzaturieri. Come si può intuire, il ”made by Italy” si ripercuote negativamente sull’occupazione. Dislocando la produzione, si fa ricorso alla manodopera in loco. Questo permette all’aziende di abbattere una serie di costi che altrimenti in Italia sarebbero tenuti a sostenere: salari, contributi, tasse. Probabilmente, se venissero attuate da parte delle istituzioni politiche ad hoc tese a ridurre il pesante carico fiscale che grava sulle imprese, in parte si riuscirebbe ad arginare tale fenomeno. Ma un altro costo fisso su cui si può e si deve intervenire è quello delle risorse energetiche impiegate nel ciclo produttivo. E’ necessario incentivare l’uso delle tecnologie green e l’adozione delle rinnovabili, perché la GREEN ECOMOMY potrebbe rappresentare il punto di svolta, di rilancio del made in italy, della crescita economica e dell’occupazionale. Questa, a mio parere, può assumere un triplice ruolo: 1) favorire l’abbattimento dei costi fissi sostenuti dall’impresa, 2) favorire la riduzione del disavanzo della bilancia commerciale, 3) nuovo mercato in cui il made in italy si può affermare.

Accanto a tutto ciò, non dobbiamo dimenticare altre due importanti risorse: le risorse naturali-artistiche-culturali e le risorse umane. Queste rappresentano un patrimonio inestimabile e – soprattutto – inimitabile. L’atteggiamento miope nei loro confronti, ha impedito di fare gli opportuni investimenti. Se l’Italia non imparerà, ancora di più, a valorizzare e ad ottimizzare i beni a disposizione, cercando di fare sistema per sviluppare sinergie fra i vari settori e prodotti, favorendo la ricerca e l’innovazione, difficilmente riuscirà a tenere il passo nei confronti, non solo dei suoi competitor storici, ma anche nei confronti delle economie emergenti.

(Foto: eligere.ru)

Rosy Merola – SinergicaMentis

Rosy Merola

Definisco il mio percorso professionale come un “volo pindarico” dalla Laurea in Economia e Commercio al Giornalismo. Giornalista pubblicista, Addetta stampa, Marketing&Communication Manager, Founder di SinergicaMentis. Da diversi anni mi occupo della redazione di articoli, note e recensioni di diverso contenuto. Per il percorso di studi fatto, tendenzialmente, mi occupo di tematiche economiche. Nello specifico, quando è possibile, mi piace mettere in evidenza il lato positivo del nostro Made in Italy, scrivendo delle eccellenze, start-up, e delle storie di uomini e donne che lo rendono speciale. Tuttavia, una tantum, confesso di cadere nella tentazione di scrivere qualcosa che esula dalla sfera economico-finanziaria (Mea Culpa!). Spaziando dall'arte, alla musica, ai libri, alla cultura in generale. Con un occhio di riguardo nei confronti dei giovani esordienti e di quelle realtà che mi piace definire "startup culturali". Perché, se c'è una frase che proprio non riesco a digerire è che: "La cultura non dà da mangiare". Una affermazione che non è ammissibile. Soprattutto in Italia.