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Euro or not Euro: that is the question?

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La questione europea sembra ridursi a questo dubbio, per così dire, amletico: Euro o non Euro? A tal riguardo, il premio Nobel per l’Economia, Joseph Stiglitz – in un suo recente intervento alla Luiss, in occasione della XIV Lezione “Angelo Costa” – ha dichiarato: «L’Unione europea ha fatto un unico grande errore: l’euro, che non ha funzionato. Così, la moneta unica – ha aggiunto l’economista – è tra quelle cose che magari non possono essere invertite e allora le domande che sorgono sono due: “Perché non ha funzionato? E come si può correggere il tiro?». Lungi da questo articolo dare una risposta ad una questione così delicata su cui dibattono fior fiori di economisti, politici e via discorrendo. Tuttavia, forse, sarebbe opportuno fare un passo indietro, ripercorrendo le vicende politico-economiche all’origine dell’idea “Euro”.

FINE ANNI ’60: CAMBIA LO SCENARIO INTERNAZIONALE DELL’EUROPA A “SEI” – Gli anni ’60 furono caratterizzati da diverse crisi economiche e monetarie a cominciare dalla svalutazione della sterlina nel 1967. Ciò preoccupò non poco la Comunità Europea, dato che lo stesso ordine europeo era stato profondamente scosso dagli eventi del cosiddetto “maggio francese”. Il terremoto del ’68 non avevano risparmiato la Francia di de Gaulle, che – per qualche settimana – aveva visto Parigi diventare il centro nevralgico della contestazione europea. L’esplosione del ’68 non era più il prodotto di una popolazione di studenti troppo numerosa, ma di una società bloccata e segnata dall’ingiustizia[1]. L’immagine della Francia, ma soprattutto la persona del Generale, accusarono un duro colpo. Con il suo sogno di una Francia superpotenza, d’Europa all’Atlantico agli Urali, de Gaulle – alla fine – fu costretto a chiedere la comprensione degli altri membri della Comunità e riavvicinarsi agli Stati Uniti. Destava preoccupazione, tra le altre cose, la situazione economica francese che si stava delineando. Le industrie francesi non erano competitive, si temevano spinte inflazionistiche, un peggioramento della bilancia dei pagamenti ed una probabile svalutazione del franco francese. Tutto ciò avrebbe inevitabilmente influenzato la vita della Comunità.

Il 1°luglio 1968, con un anticipo di 18 mesi sul calendario stabilito dal Trattato CEE, scomparvero tutti i dazi doganali nell’ambito del Mercato Comune. Furono unificate le tariffe doganali esterne dei sei Paesi e applicate le prime riduzioni tariffarie concordate in seno al GATT. Tale data rappresentò una pietra miliare nella storia economica del Continente. La profonda crisi aveva mostrato come i destini degli Stati europei, cominciavano a mescolarsi. Occorreva persuadere le principali economie, le forze sociali ed intellettuali dell’Europa, ad avere un coinvolgimento sempre più attivo nella costruzione del Continente Europeo[2]. Una piccola incrinatura nel principio della libera circolazione delle merci fu provocata, proprio in quei giorni, dalla richiesta francese di poter applicare in via provvisoria dei contingentamenti all’importazione, a causa della grave situazione economica.

Oramai aleggiava nell’aria la percezione che qualcosa stava per cambiare nel mondo e, in modo particolare, in Europa. Negli Stati Uniti dovevano svolgersi le elezioni presidenziali verso la fine dell’anno. Bisognava eleggere il presidente che avrebbe dovuto portare l’America fuori dal pantano vietnamita in cui stava sempre più sprofondano. Infatti, con Lyndon Johnson alla guida del paese dopo l’omicidio di Kennedy, si era assistito ad un’escalation – nel 1967 – del coinvolgimento americano nella guerra in Vietnam. Così, mentre gli Usa erano impegnati a risolvere le proprie questioni, la Comunità prese coscienza del fatto che la debolezza della Francia sarebbe stata più nociva rispetto ai suoi passati tentativi egemonici e lo squilibrio si sarebbe esteso – nell’autunno inverno 1968-69 – sugli altri Stati membri con ripercussioni sullo stesso funzionamento del Mercato Comune.

LA CONFERENZA DE L’AJA – Alla luce di ciò, in particolare, si temeva che gl’aggiustamenti dei tassi di cambio potessero danneggiare la creazione dell’unione doganale. Le eventuali svalutazioni della sterlina avrebbero interrotto la garanzia del prezzo comune, privilegiando i produttori provenienti da paesi la cui moneta era stata svalutata. Allo stesso tempo, quando Nixon assunse la presidenza nel gennaio 1969, anche gli Stati Uniti erano minacciati da una grave crisi economica.

Fin dal 1958, in seguito all’istituzione del Gold-dollar Standard che consacrò il predominio del dollaro come moneta di riserva nei pagamenti internazionali, gli Stati Uniti avevano fatto confluire nell’Europa Occidentale ingenti investimenti diretti, effettuati – quindi – per riuscire ad esercitare in Europa una presa di controllo. Buona parte dei suddetti investimenti erano stati finanziati attraverso prestiti ottenuti sul mercato europeo dei capitali. Nel 1966 si stimava che il mercato dell’Euro-emissione aveva finanziato gli investimenti americani per un ammontare di 450-500 milioni di dollari. Questi capitali, denominati euro-dollari, guadagnati dall’Europa attraverso vendite agli Stati Uniti, avevano una natura particolare perché facenti capo direttamente al deficit della bilancia dei pagamenti americana. In pratica, le imprese europee che cedevano merci agli Stati Uniti ricevevano in cambio dollari che non erano tenuti a versare alla propria banca. Si trattava di un sistema pratico per finanziare i deficit della bilancia dei pagamenti americana, facendosi pagare dagli europei in dollari e rinvestendoli poi in Europa. Così, con il tempo, si cominciarono a formare conti di Euro-dollari, via via crescenti, con conseguenze dirette sul deficit della bilancia dei pagamenti americana[3].

Nixon, per fronteggiare tale situazione, in primo luogo dispose la creazione di un gruppo di lavoro, il Volcker Group, dal nome del Sottosegretario al Tesoro per gli Affari Monetari, a cui fu affidata la presidenza. Il Volcker Group poteva fare degl’interventi sulle decisioni di politica monetaria degli Stati Uniti, al fine di potere individuare politiche alternative in relazione alla bilancia dei pagamenti, al funzionamento del sistema monetario internazionale e piani di contingenza, per rispondere ad eventuali crisi monetarie[4]. In particolare, un memorandum del Volcker Group sulla politica monetaria degli Stati Uniti a lungo termine prendeva in analisi quattro punti: 1) l’attivazione dei diritti speciali di prelievo, 2) il problema del prezzo dell’oro, 3) lo scambio tra dollaro, oro e altre riserve, 4) politiche del tasso di cambio: parità fissa e flessibilità controllata. Tale documento evidenzia l’apprensione per la situazione mondiale contingente. Destava preoccupazione la convertibilità del dollaro in oro.

A tal fine, il memorandum suggeriva una serie d’approcci aventi l’effetto di limitare le eventuali tensioni della convertibilità. Uno di questi consisteva nel congelamento, in qualche modo, delle bilance estere in dollari. Un secondo approccio riguardava un articolato metodo per eliminare la convertibilità. Ciò avrebbe determinato molte difficoltà, se non – addirittura – reso impossibile qualsiasi forma di contrattazione. La terza proposta riguardava la possibilità di continuare l’utilizzazione di un procedimento informale, consistente nella limitazione dei volumi negoziati, attraverso la cooperazione della Banca Centrale e il loro successivo reinserimento sul mercato internazionale mediante il circuito delle banche commerciali. La quarta si basava sul suggerimento del congelamento del dollaro e dell’oro, con un tasso di cambio flessibile fungente da collegamento fra i due. Il problema più importante da affrontare era come muoversi senza causare rilevanti squilibri al sistema monetario, riuscendo ad ottenere – alla fine – l’approvazione internazionale[5]. In sostanza, gli Stati Uniti si trovavano a dover affrontare un gravoso dilemma: come fronteggiare i problemi relativi alla propria bilancia dei pagamenti, senza scaricare sul resto del mondo le proprie difficoltà, ovvero come evitare di attuare una politica del tipo “beggar – my – neighbour”.

Dall’altra sponda dell’oceano, la Commissione Europea cercava di individuare un modo per ripristinare la stabilità monetaria nei sei Paesi membri, dal momento che i problemi monetari rischiavano di mettere a repentaglio il successo della politica economica della CEE. Il 12 febbraio 1969, Raymond Barre, Vicepresidente della Commissione con responsabilità speciali sulle questioni monetarie, presentò al Consiglio un memorandum destinato a prevenire le crisi monetarie e a supportare le monete in difficoltà, attraverso un meccanismo volto a garantire il coordinamento della politica economica e la cooperazione monetaria nella Comunità. Il Piano rappresentava la risposta alle crisi monetarie del novembre 1968. Intanto, la crescita dell’indebitamento degli Stati Uniti stava erodendo sempre più la credibilità internazionale del dollaro e, conseguentemente, anche quella del sistema di tassi di cambio fissi secondo gli accordi di Bretton Woods[6].

Oltre alle questioni monetarie, i Paesi europei si trovarono a dover affrontare anche diversi cambiamenti sulla scena politica. Il 27 aprile 1969, segnò l’addio al mondo politico da parte del Generale de Gaulle, dopo la sua sconfitta ai referendum. A de Gaulle successe George Pompidou, il quale subito diede prova di voler attuare un approccio politico diverso rispetto al suo predecessore, soprattutto in politica estera. Il Presidente francese, infatti, rinunciò a qualsiasi atteggiamento polemico nei confronti degli Stati Uniti, dell’Alleanza Atlantica, cambiando registro anche rispetto alla situazione economica e monetaria della Francia. Quest’ultima non poteva più essere sostenuta alle condizioni di de Gaulle. Così, nell’agosto 1969, il nuovo governo francese decise di svalutare il franco, allo scopo di dare origine ad una rapida ripresa economica della Nazione. I cambiamenti non coinvolsero soltanto la Francia.

Qualcosa di nuovo era avvenuto anche in Germania ed era l’avvento di una nuova coalizione, quella dei socialdemocratici guidati da Willy Brandt, il quale immediatamente precisò che avrebbe mirato a normalizzare i rapporti fra Germania ed Unione Sovietica. Si apriva così il capitolo della Ostpolitik, ciò significa dire che il «nano politico» cominciava a crescere ed aveva deciso di muoversi da solo.
A tal proposito, Kissinger scrisse: «Brandt era notoriamente favorevole all’ingresso dell’Inghilterra nel Mercato Comune, e la sua nuova politica nei confronti dell’Europa orientale evocò l’incubo di una Germania tesa a perseguire con maggior decisione la sua indipendenza e i suoi interessi nazionali. Di conseguenza, i francesi cominciarono a vedere l’ingresso dell’Inghilterra nel Mercato Comune con occhi più benevoli»[7].

Così, nella sua prima conferenza stampa – il 9 luglio – Pompidou dichiarò di non avere più nessuna remora (a differenza del suo predecessore de Gaulle) all’ingresso dell’Inghilterra, pur subordinando tale apertura al raggiungimento degl’accordi sulla politica agricola comune. Per dare prova delle sue buone intenzione, Pompidou propose la convocazione di una conferenza dei Capi di Stato e di governo dei sei Stati membri della Comunità, da effettuarsi il primo e il due dicembre 1969 a L’Aja. La scelta della città olandese non fu casuale, infatti, ventuno anni prima aveva ospitato la grande conferenza da cui era partito il processo d’integrazione[8]. «Nel settembre del 1969, l’Europa appariva ancora in preda al massimo disordine ed incapace di svolgere qualsiasi ruolo importante sulla scena mondiale. Le profonde scissioni esistenti la tenevano ancora ben lontana da un’attuazione pratica delle sue aspirazioni unitarie, anche per il continuo prevalere degli accordi bilaterali sul necessario spirito comunitario»[9].

Tre giorni prima dell’inizio dei lavori a l’Aja, Willy Brandt inviò una lettera al Presidente francese, in cui gli confermava che la RFT avrebbe appoggiato l’adozione del regolamento finanziario definitivo della PAC (Politica Agricola Comune), tanto a cuore alla Francia, se quest’ultima si fosse impegnata a concludere un accordo sull’inizio dei negoziati per l’allargamento. Inoltre, il Cancelliere tedesco propose anche l’istituzione di un Fondo di Riserva Europeo, così come avanzato dal Comitato d’azione di Jean Monnet, il quale doveva fungere da strumento di stabilizzazione per le gravi crisi monetarie che negli ultimi tempi avevano colpito le valute europee. Pompidou faceva proprio affidamento sul sostegno tedesco.

Nel suo discorso d’apertura al vertice de L’Aja, Pompidou sottolineò che il periodo di transizione stava volgendo alla fine. I dazi doganali erano ormai un ricordo del passato. Il Mercato Unico dei prodotti agricoli era stato accuratamente sviluppato. Naturalmente, vi erano molte altre questioni a cui bisognava dare una risposta. Fra queste, la questione più importante riguardava la domanda d’adesione presentata da diversi Paesi, in particolar modo, quella della Gran Bretagna. Per Pompidou, tre erano i problemi che la Comunità si trovava a dover affrontare: «In primo luogo abbiamo il problema del “completamento”, in altri termini il passaggio alla fase finale e l’adozione delle misure finanziarie definitive. In un secondo luogo c’è il problema del “consolidamento”, a volte chiamato “sviluppo”, riguardante la prospettiva di crescita della Comunità. Infine, abbiamo il problema dell’“allargamento”. Dall’analisi di tali questioni dipende la nostra risposta ad una domanda fondamentale: siamo determinati a continuare la costruzione della Comunità Europea? La mia risposta a ciò è un chiaro, netto ed inequivocabile “Sì”»[10].

Alla fine della prima giornata di lavori, non era ancora possibile capire se il Vertice si sarebbe trasformato in un successo o in un fallimento. Oltre alla decisione sull’allargamento e alla definizione del regolamento finanziario della politica agricola, a L’Aja si raggiunsero altri importanti accordi, soprattutto sul piano economico-monetario. Infatti, durante il secondo giorno di lavori della Conferenza, Pompidou ricollegandosi alla crisi monetaria della Francia e alle misure speciali che erano state prese per correre ai ripari, rammentò ai presenti il Piano Barre che, secondo, lui rappresentava un approccio pratico e realista. Questo consisteva nella creazione di un fondo di sostegno di breve e medio termine, e l’introduzione di un procedimento di circolazione speciale. Inoltre, il Piano prevedeva l’adozione di un atteggiamento comune, da parte dei Sei, di fronte al Fondo, a cui si sarebbero dovuti rivolgere in veste di unico interlocutore. Così, il Piano Barre rappresentava solo la prima tappa di un obiettivo più ambizioso: l’unione monetaria sulla base di un’unità di conto europea.

UNIONE MONETARIA: I PRIMI PASSI – I risultati ottenuti al termine della Conferenza apparvero alquanto marginali. Il comunicato ufficiale evidenziava come non si fosse andati molto oltre alla semplice affermazione di principio, facendo emergere, soprattutto l’influenza dell’intesa franco-tedesca. Tuttavia, alla fine della disamina, i presenti avevano concordato che, per realizzare una crescita più veloce della Comunità, bisognava promuovere lo sviluppo nell’ambito di un’unione monetaria. A tale scopo, tutti furono d’accordo – sulla base del memorandum presentato dalla Commissione il 12 febbraio 1969 – nell’elaborazione, nel corso degli anni Settanta, di un piano per la creazione di una unione economica e monetaria e, di conseguenza, una moneta comune.

In questo modo, il meccanismo era stato messo in azione. Il 6 marzo 1970, nel corso di una seduta, il Consiglio della Comunità aveva deciso di invitare i presidente del Comitato monetario, del Comitato dei Governatori delle Banche Centrali, del Comitato per la politica economica di medio termine, del Comitato per le politiche di bilancio e ad un rappresentante della Commissione, a riunirsi sotto la guida di Pierre Werner, al fine di realizzare un piano a tappe per l’attuazione dell’Unione economica e monetaria. Inoltre si era deciso che un primo rapporto sarebbe stato presentato dal Consiglio, entro la fine del maggio 1970[11].

Nel corso dei lavori emersero diverse posizioni, le quali riflettevano le condizioni in cui si trovavano gli Stati-membri. In particolare, la Germania e l’Olanda erano per un approccio definito “economista”, in base al quale prima di fissare in maniera irreversibile la parità dei cambi, bisognava effettuare un coordinamento effettivo delle politiche economiche comunitarie. Invece, la Francia, il Lussemburgo e l’Olanda identificati come “monetaristi”, erano del parere che l’unione monetaria dovesse essere realizzata rapidamente. Infine, l’Italia propendeva per un “approccio pragmatico”, che solo in parte si collocava fra le due sopraindicate posizioni. Nelle sue memorie, il Governatore della Banca d’Italia, Guido Carli definì la posizione italiana in seno al Comitato Werner volta a «favorire un approccio istituzionale: si doveva dare la precedenza all’unificazione degl’ordinamenti istituzionali»[12].

Il “Rapporto Werner” fu portato a termine il 20 maggio e presentato l’8 e il 9 giugno 1970, nel corso della centosedicesima sessione del Consiglio. Il Rapporto era articolato in sette capitoli, nel secondo venivano indicate le motivazioni che spingevano verso la realizzazione di un’Unione monetaria: «Fin dalla firma dei Trattati di Roma, la Comunità Economica Europea ha compiuto diversi passi di massima importanza per l’integrazione economica. Il completamento dell’unione doganale e la definizione della politica agricola comune costituiscono le più importanti pietre miliari. Comunque, i progressi verso l’integrazione avranno come conseguenza lo squilibrio economici generale degli Stati membri, che – a sua volta – avrà dirette ripercussioni sull’evoluzione globale della Comunità. L’esperienza degl’ultimi anni ha dimostrato come lo squilibrio può compromettere seriamente l’integrazione realizzata attraverso la libera circolazione dei beni, dei servizi e dei capitali. Questo è particolarmente vero per il mercato agricolo comune. Esaminando le spiccate differenze esistenti fra i Paesi membri nel perseguimento dei loro obiettivi di crescita e stabilità, vi è il serio pericolo che si sviluppi una situazione di squilibrio, qualora la politica economica non possa essere effettivamente armonizzata»[13].

Il Rapporto continuava sostenendo che l’unione economica e monetaria avrebbe reso possibile la realizzazione di un’area dentro la quale beni, servizi persone e capitali avrebbero potuto circolare liberamente, senza distorsioni concorrenziali, senza generare squilibrio strutturale o regionale. La realizzazione di tale forma d’unione avrebbe avuto anche l’effetto di un durevole miglioramento, in termini di benessere, per la Comunità e avrebbe rinforzato il contributo della stessa Comunità all’equilibrio economico e monetario nel mondo. Un’unione monetaria significativa, nell’ambito dei suoi confini: la piena e irreversibile convertibilità delle valute dei Paesi aderenti; tassi di cambio irrevocabilmente fissi; l’eliminazione dei margini di fluttuazione intorno a detti tassi di cambio; movimenti di capitali completamente liberi. Inoltre, avrebbe potuto portare anche l’adozione di una moneta unica, a conferma dell’irreversibilità dell’impresa.

Tutta questa intraprendenza europea non fu gradita da Washington. In particolare, le decisioni “monetarie” andavano in direzione diametralmente opposta ai progetti e alla situazione economica in cui gli Stati Uniti. Infatti, fin dall’inizio degli anni ‘60, era evidente che gli Stati Uniti stavano sviluppando un deficit strutturale della bilancia dei pagamenti. Situazione che era già evidente ai tempi dell’elezione di John Fitzgerald Kennedy che, dieci giorni prima del suo insediamento, aveva provveduto ad inviare poche righe al Congresso in cui riassumeva la situazione nazionale: «L’economia americana è in difficoltà. Le difficoltà sono evidenziate dai numeri: sette mesi di recessioni, tre anni e mezzo di ristagno, sette anni di riduzione della crescita economica». Contestualmente stava andando sempre meglio la situazione economica dei Paesi dell’Europa, i quali continuavano ad accumulare dollari, mentre il deflusso dell’oro dalle riserve americane aumentava. L’accumulo di dollari era conveniente fintanto che non c’erano dubbi sulla loro convertibilità aurea. Tuttavia, proprio a causa del deflusso dell’oro che – tra il 1958 e il 1962 – era stato pari ad otto miliardi di dollari, la certezza sulla convertibilità cominciò a vacillare. Nel 1960, per la prima volta l’ammontare delle riserve auree degli Stati Uniti fu inferiore alle passività monetarie in divisa estera[14].

Dopo aver sostenuto finanziariamente la rinascita economica europea, l’economia americana stava iniziando a subirne le conseguenze, le quali si manifestavano nella pratica post-bellica di detenere dollari, convertibili al di fuori degli Stati Uniti, determinando – in questo modo – tensioni monetarie interne, dato che il governo americano era costretto a stampare moneta. Un’unione economica e monetaria europea, quindi, avrebbe rafforzato la Comunità e aumentato le possibilità che l’economia europea entrasse in conflitto con quella americana, riacutizzando il dilemma collaborazione-competizione.

Il malumore di Washington, tuttavia, non condizionò la Comunità europea che – incurante – proseguì il cammino intrapreso verso l’unità monetaria. Il 22 marzo 1971, il Consiglio approvò una risoluzione, che prevedeva l’inizio della costruzione dell’Unione economica e monetaria, vale a dire l’applicazione della prima fase del Piano Werner. In essa si prefigurava, alla fine del decennio, l’istituzione di cambi rigidi e immutabili tra le monete comunitarie. Si decise, inoltre, di rafforzare il coordinamento delle politiche economiche a breve termine degli Stati membri e la collaborazione tra le banche centrali.

Nella notte tra il 26 e il 27 aprile, il Consiglio della Comunità deliberava il primo passo sostanziale verso l’irrigidimento dei tassi di cambio interni, riducendo da 0,75% a 0,60% il margine d’oscillazione consentito rispetto alle parità tra le monete. Tuttavia, a maggio, dopo un periodo d’intensa speculazione monetaria internazionale, il Governo tedesco – a causa dell’ingente afflusso di dollari verso la Bundesbank – temendo un’impennata dell’inflazione, chiese ed ottenne dal Consiglio di poter far fluttuare il marco. Tutto ciò era in antitesi con quanto era stato deciso dalla risoluzione del 22 marzo[15]. Allo stesso tempo, tali decisioni non facevano altro che rigirare il coltello e acutizzare i timori americani, come veniva puntualizzato in un memorandum del 12 maggio – inviato da Ernest Johnson del Consiglio di Sicurezza Nazionale a Kissinger – avente come oggetto “Le ripercussioni politiche della crisi monetaria europea”.

In esso, oltre ad emergere un cauto allarmismo, venivano indicati quattro problemi di carattere politico: il risentimento europeo nei confronti della politica americana della bilancia dei pagamenti, la quale aveva contribuito ad alimentare la crisi; l’ostilità del Congresso degli Stati Uniti rispetto alla rivalutazione tedesca, la quale avrebbe incrementato i costi delle truppe di supporto in Europa; le tensioni interne al Mercato Comune, le quali avrebbero potuto generare ritardi nella realizzazione dell’Unione Monetaria Europea e, in particolare, ritardi inevitabili aggiustamenti della Politica Agricoli Comune; i possibili effetti dell’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità (che avvenne il 1° gennaio 1973, insieme all’Irlanda e alla Danimarca, determinando – in questo modo – la nascita della nuova)[16].

A causa di tutto ciò, cominciò – nella primavera del 1971 – a maturare la decisione di preparare l’uscita unilaterale – da parte di Washington – dagli accordi di Bretton Woods. Cosa che si concretizzò la sera del 15 agosto 1971, quando – con un discorso radio-televisivo dal titolo “The Challenge of Peace”, Nixon annunciò alla Nazione e agli osservatori internazionali la sua “New Economic Policy”. Con un gesto clamoroso ed unilaterale, tra le altre cose, Nixon aveva sganciato il dollaro dall’oro, sospendendo la convertibilità del dollaro in oro (aprendo la via ad un’effettiva svalutazione) e – allo stesso tempo – aveva deciso di introdurre una tassa addizionale del 10% sui beni importati. Con queste misure, il Presidente americano aveva messo sotto scacco gli accordi di Bretton Woods, poggiante su rapporti di cambio fissi tra le valute, tutte agganciate al dollaro che, a sua volta, era agganciato all’oro.

Le prime reazioni in Europa e nel resto del mondo furono di totale sbigottimento. L’azione americana aveva preso in contropiede, alla quale, a primo impatto, non fu chiaro se dare maggiore importanza all’aspetto monetario o alla sovrattassa, vista come azione neoprotezionistica. Tale disorientamento non poteva non essere notato da parte degli esperti americani. Soprattutto non poteva sfuggire loro la mancanza di mordente della Comunità Europea emersa – ben tre giorni più tardi – dalla riunione della Commissione del 18 agosto. Nel corso di tale incontro, in sostanza, la Comunità aveva deciso di andare compatta presso il GATT, ma solo per chiedere un pronunciamento sulla sovrattassa. Sul piano monetario, il Consiglio della Comunità – dopo sedici ore di riunione – l’unico punto di convergenza che riuscì a trovare fu la decisione di permettere la riapertura dei mercati valutari il 23 agosto. «Nell’impossibilità di svolgere una politica “europea” in risposta all’azione americana, i Paesi europei si mossero in ordine sparso: la Francia applicò il “two-tier exchange system”, cioè un doppio sistema con cambio fisso sul dollaro per le transazioni commerciali e cambi liberi per le operazioni finanziarie. Gli altri Paesi della Comunità Europea, Austria Paesi scandinavi, Gran Bretagna e Giappone, decisero di far fluttuare le proprie valute»[17].

Dopo l’iniziale spiazzamento, cominciò a prendere piede uno spiccato e diffuso risentimento per l’unilateralità del gesto e per l’assoluta mancanza di consultazione preventiva da parte degli americani. Quindi, ci vollero alcuni mesi per poter arrivare ad un accordo – più o meno condiviso – dalle parti chiamate in causa. Il 18 dicembre fu convocata a Washington una riunione dei Paesi del G-10, a seguito della quale, le Nazioni presenti decisero di aderire anch’essi al nuovo accordo monetario, siglando i cosiddetti Smithsonian Agreements (dal nome del palazzo in cui erano stati firmati). Sostanzialmente, tale documento stabiliva l’impegno degli Stati Uniti a rimuovere la sovrattassa sulle importazioni. Il prezzo dell’oro fu portato da 35 a 38 dollari all’oncia. Prevedeva, inoltre, un complessivo riallineamento valutario rispetto alla parità del dollaro del 30 aprile 1971. Furono stabiliti i tassi di cambio fissi, con i margini di oscillazione ampliati al 2,25%, ma il dollaro rimase inconvertibile[18]. Attraverso gli Smithsonian Agreements, gli Stati Uniti erano riusciti a preservare il ruolo centrale del dollaro, sganciandosi allo stesso tempo dei vincoli del sistema di Bretton Woods. In questo modo, il governo americano avrebbe potuto continuare a trattare i vantaggi che procurava una moneta di fatto mondiale, senza preoccuparsi del deficit strutturale della loro bilancia dei pagamenti. Avrebbe potuto continuare a finanziare deficit senza essere costretto a convertire dollari in oro.

In quel particolare momento storico, ciò che premeva di più era porre fine alla grave crisi economica che stava minacciando i più importanti sistemi economici mondiali. Tuttavia, gli europei – approvando il dollar standard a cambi fissi sancito dagli Smithsonian Agreements – non avevano fatto i conti con ciò che avrebbe comportato l’accettazione di una pratica così scorretta ad opera degli Stati Uniti. Nixon, infatti, iniziò ad utilizzarlo come strumento di potere economico nelle relazioni internazionali. La circolazione di dollari inflazionati non soltanto permetteva agli USA di contenere le tensioni sociali interne e scaricarle all’esterno, ma generava anche continue difficoltà politiche, oltre che economiche, alla Comunità Europea.

A causa di ciò, il disordine monetario restava ancora al centro delle preoccupazioni della Comunità Europea. Verso la metà del 1972, dopo la crisi valutaria della sterlina, la situazione tra le due sponde dell’Atlantico era alquanto tesa e per l’Europa si prospettava un periodo difficile. La marcia verso l’integrazione proseguiva con scarsa determinazione. La stessa preparazione di una Conferenza al Vertice, importante per l’avvenire della Comunità perché doveva consacrare l’allargamento ai nuovi Paesi candidati e fornire un programmo per il futuro – spesso sembrò nell’impasse.

Alla fine, superate le difficoltà e i malumori, si riuscì ad organizzare la Conferenza, la quale si svolse a Parigi il 19 e il 20 ottobre 1972. Questa sancì ufficialmente l’avvio della Comunità a Nove. I lavori della conferenza condussero all’individuazione di alcune linee guida su cui si sarebbe sviluppata l’iniziativa comunitaria. In particolare, si decise l’istituzione – entro il 1° aprile 1973 – di un Fondo europeo di cooperazione monetaria; l’adozione – entro il 1° gennaio 1974 – di un programma d’azione in tema di politica sociale per il passaggio alla seconda tappa dell’unione economica monetaria; l’entrata in vigore – entro il 31 dicembre 1973 – di un Fondo di sviluppo regionale alimentato con risorse proprie. Infine, nel rispetto assoluto dei Trattati già sottoscritti – entro il 1980 sarebbe stata realizzata l’Unione economica monetaria.

«Nel documento conclusivo venivano richiamati gl’impegni alla lotta all’inflazione e al ritorno della stabilità dei prezzi come scopi prioritari; inoltre, veniva elencato una sorta di decalogo per la riforma del sistema monetario internazionale “al fine di instaurare un ordine equo e durevole”»[19]. Ma come annotò Jean Monnet: «Il vertice aveva abbracciato troppo e stretto troppo poco»[20].

E, alla luce dei fatti, si aveva abbracciato troppo e stretto troppo poco anche venti anni dopo – il 7 febbraio 1992 – quando, gli allora 12 Stati membri (Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Spagna) della Comunità economica europea siglarono il Trattato di Maastricht (composto da 252 articoli nuovi, 17 protocolli e 31 dichiarazioni), entrato poi in vigore il primo novembre nel 1993. Infatti, nell’intenzioni degl’ideatori, il sopraindicato Trattato sarebbe dovuto essere il “pilastro dell’euro”, ma che – a più di venti anni dalla sua entrata in vigore – ha fatto emergere tutta la sua inadeguatezza nei confronti di un progetto così ambizioso, quale quello dell’Unione monetaria.

Il Trattato di Maastricht esprimeva il desiderio di procedere verso un’unione politica più forte, concentrandosi, in particolar modo, sul percorso da seguire per arrivare alla moneta unica, il 10 gennaio 1999 con una Banca Centrale Europea. Tracciava l’architettura dell’Unione europea edificata sui tre pilastri del progetto Santer: la politica comunitaria, la politica estera e di sicurezza e la cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni. Una struttura anomala che, con il passare del tempo, si è rivelata essere claudicante, al punto tale da rendere necessario un restyling.

Ed è così che, per cercare di rafforzare il pilastro della politica estera e quello della giustizia, si è proceduto all’introduzione del Trattato di Lisbona (entrato in vigore il 1° gennaio dicembre 2009) creando una politica estera comune e procedendo nella costituzione di un’ Europa della giustizia. Tuttavia, a mio modesto parere, il suddetto Trattato comunque non è stato molto incisivo. Infatti, pur avendo previsto il voto a maggioranza qualificata anche in settori politici, su specifica richiesta del Consiglio europeo, questo può essere neutralizzato ritornando all’unanimità, in caso di opposizione di uno degli Stati membri che avanzi vitali ed espliciti motivi di interesse nazionale. Inoltre l’unanimità è esplicitamente riconfermata come regola generale per le decisioni in materia di politica estera e di sicurezza. Ciò significa che in futuro si potrebbero verificare di nuovo divisioni paralizzanti, perché come ha scritto Servan-Schreiber: «La regola dell’unanimità è la tecnica del rifiuto. La regola della maggioranza è una tecnica d’azione»[21].

Tuttavia, se su questo fronte si è cercato di fare qualcosa, solo con l’incalzare della crisi economica e dei rischi del debito sovrano di alcuni degli Stati membri, si è preso coscienza delle consenguenze dovute alla mancanza di una politica economica e di bilancio unica. Ciò ha fatto correre ai ripari (sperando che non sia già troppo tardi), definendo un nuovo Trattato, che si candida quale sostituto di quello di Maastricht, ovvero il ‘fiscal compact’ o Patto di bilancio, approvato il 2 marzo 2012 da 25 dei 27 (ora 28) paesi dell’Unione (mancano Gran Bretagna e Repubblica Ceca) e che – al 14 gennaio 2014 – tale documento è stato ratificato da 24 dei 25 firmatari, di cui 17 membri dell’eurozona.

Con esso, i paesi firmatari hanno cercato di colmare le lacune di un accordo nato monco, in quanto fissava vincoli economici comuni senza preoccuparsi di coordinare le politiche economiche. Come ha spiegato uno dei protagonisti della moneta unica, Jacques Delors, “Un errore che ha reso inevitabile l’attuale crisi dei debiti”. In particolare, se parallelamente all’ingresso dell’euro, si fosse realizzata anche l’unione di bilancio, l’euro avrebbe avuto una maggiore solidità e, forse, adesso lo scenario sarebbe meno critico e meno scettico rispetto all’Euro.

E qui si arriva all’interrogativo dell’incipit: Euro sì o Euro no? Modelli econometrici pro e conto la moneta unica cercano di dare una risposta, attraverso simulazioni che descrivono possibili scenari concernenti l’uscita dall’euro. Ma si tratta di simulazioni, appunto. Gli effetti reali non si possono prevedere con certezza assoluta. Solo ex post si potrebbe sapere se il processo definito “irreversibile” nel Rapporto Werner del 1970, invece consentiva una via d’uscita, senza lasciare troppe macerie. Perché, a questo punto del processo, sarebbe utopistico ed erroneo pensare che – l’eventuale uscir “a riveder le stelle” – sarebbe del tutto indolore.

Fonti:
[1] – MONNET, JEAN, Cittadino d’Europa, Napoli, AGE –Alfredo Guida Editore, 2007, p. 576.
[2] – Declaration by the Commision on the occasion of the achievement of the customs union on 1 July 1968, in Bullettin of the European Communities, 1968, No 7, pp. 5-8.
[3] – SERVAN-SCHREIBER, JEAN-JACQUES, La sfida americana, Milano, ETAS KOMPASS, 1968, pp. 8-11.
[4] – Foreing relations of the United States (FRUS, 1969-1976, Volume III, Foreign Economic Policy, 1969-1972; International Monetary Policy, doc. n. 109, 1969-1972.
[5] – Idem, doc. n. 111.
[6] – “Commission memorandum to the Council on the co-ordination of economic policies and monetary operation within the Community (12 February 1969)”, in Bulletin of the European Communities, March 1969, No Supplement 3/69, pp. 3-14.
[7] – KISSINGER, HENRY, Gli anni della Casa Bianca, Milano Sugarco, 1980, p. 132.
[8] – MAMMARELLA GIUSEPPE, CACACE PAOLO, Storia e Politica dell’Unione Europea, Roma-Bari, Editori Laterza, 1998, pp. 134-135.
[9] – CELOZZI BALDELLI, PIA GRAZIA, Richard M. Nixon. Una politica americana per l’Europa e il Medio Oriente 1969-70, Roma, Gangemi Editore spa, 2006, p. 134.
[10] -POMPIDOU GEORGES, Discorso Conferenza de L’Aja 1 dicembre 1969, in “Bulletin of European Communities”, Febbraio, 1970, No 2, pp. 32-35.
[11] – Décision du Conseil du 6 mars 1970 relative à la procédure en matière de coopération économique et monétaire, in «Journal officiel des Communautés européennes (JOCE)», 14.03.1970, No L59, p. 44.
[12] – GUASCONI, MARIA ELEONORA, L’Europa tra continuità e cambiamento: il Vertice del 1969 e il rilancio della costruzione europea, Firenze, Edizione Polistampa, 2004, pp. 98-99.
[13] – Report on the realisation by stages of economic and monetary union (8 October 1970), in “Bullettin of the European Communities”, 1970, No Supplemenent 11/70, pp. 2-29.
[14] – WINAND, PASCALINE, Eisenhower, Kennedy and the Unite States of Europe, New York, S. Martin’s Press, 1993, pp. 168.
[15] – OLIVI, BINO, L’Europa difficile. Storia politica dell’integrazione europea 1948-1998, Bologna, Società editrice il Mulino, 1983, p. 143.
[16] – FRAUS, 1969-1976, Volume III, doc. n. 152.
[17] – BASOSI, DUCCI, Il Governo del dollaro, Interdipendenza economica e potere statunitense negli anni di Richard Nixon (1969-1973), Firenze, Edizione Polistampa, 2006, p.217.
[18] – FRAUS, 1969-1976, Volume III, doc. n. 221.
[19] – MAMMARELLA GIUSEPPE, CACACE PAOLO, Storia e Politica dell’Unione Europea, Roma-Bari, Editori Laterza, 1998, pp. 153-154.
[20] – DUCCI, ROBERTO, Le speranze d’Europa (carte sparse 1943-1985), a cura di Guido Lenzi, Rubettino, 2007, p. 302.
[21] – JEAN-JACQUES SERVAN-SCHREIBER, La sfida americana, Milano, Etas Kompass, 1968, p. 140.

(Foto: puntodistella.it)

Rosy Merola – SinergicaMentis

 

Rosy Merola

Definisco il mio percorso professionale come un “volo pindarico” dalla Laurea in Economia e Commercio al Giornalismo. Giornalista pubblicista, Addetta stampa, Marketing&Communication Manager, Founder di SinergicaMentis. Da diversi anni mi occupo della redazione di articoli, note e recensioni di diverso contenuto. Per il percorso di studi fatto, tendenzialmente, mi occupo di tematiche economiche. Nello specifico, quando è possibile, mi piace mettere in evidenza il lato positivo del nostro Made in Italy, scrivendo delle eccellenze, start-up, e delle storie di uomini e donne che lo rendono speciale. Tuttavia, una tantum, confesso di cadere nella tentazione di scrivere qualcosa che esula dalla sfera economico-finanziaria (Mea Culpa!). Spaziando dall'arte, alla musica, ai libri, alla cultura in generale. Con un occhio di riguardo nei confronti dei giovani esordienti e di quelle realtà che mi piace definire "startup culturali". Perché, se c'è una frase che proprio non riesco a digerire è che: "La cultura non dà da mangiare". Una affermazione che non è ammissibile. Soprattutto in Italia.