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Pillole di politica economica monetaria internazionale: il crollo di Bretton Woods

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Abbiamo deciso di riprendere il discorso iniziato attraverso l’approfondimento “Euro or not Euro: that is the question?”, in tema di economia monetaria internazionale, soffermandoci sulle dinamiche che determinarono il venir meno degli accordi di Bretton Woods e le sue ripercussioni sull’equilibrio mondiale.

Come era già stato puntualizzato, nella primavera del 1971, cominciò a maturare a Washington la decisione di preparare l’uscita unilaterale dai sopraindicati accordi. In realtà, fino a quel momento, le priorità dell’allora presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon (eletto il 4 novembre 1968, con un risicato 0,8% in più dei consensi rispetto al suo antagonista Humphrey. Vittoria interpretata, più che altro, come voto di protesta nei confronti dell’amministrazione uscente) erano altre. Infatti, stando a quanto si legge in un memorandum datato 2 marzo 1970, tutta l’attenzione presidenziale – in quel periodo – era rivolta alle relazioni con l’Unione Sovietica e con la Cina. In merito all’Europa Occidentale, Nixon si sarebbe interessato solo delle questioni concernenti la NATO. Infine per le questioni economiche, egli sarebbe intervenuto solo nel caso in cui fosse stato necessario adottare decisioni riguardanti l’inflazione o la recessione. Specificava di non volersi più interessare di politica economica internazionale: né negli aspetti commerciali, né in quelli monetari[1].

Se era vero che in questa fase il sistema monetario internazionale, in quanto tale, sembrava uscito dalle priorità di Nixon, si trattava di un’uscita di scena solo apparente. Infatti, per molti mesi, l’Amministrazione Nixon si era concentrata proprio sul fenomeno europeo e sugli scenari geopolitici globali che si aprivano con il rafforzamento della Comunità. L’amministrazione statunitense era consapevole che un’unione economica e monetaria europea avrebbe comportato nuove sfide per gli Stati Uniti. «In particolare, poiché era unanimemente riconosciuto che le ragioni di malcontento nei confronti dell’Europa erano essenzialmente economiche, la politica economica internazionale dell’amministrazione Nixon si trovava nelle condizioni di dover fare un salto qualitativo: essa non poteva più limitarsi a perseguire l’obiettivo di un nuovo sistema di libero scambio e libero flusso di capitali, cercando al più il coinvolgimento passivo dei partner europei, ma doveva considerare il fatto che gli stessi Paesi europei, e la nuova Comunità Europea in particolare, rappresentavano parte del problema»[2]. La questione preoccupava non poco Kissinger, il quale, nella primavera del 1970, aveva dato mandato al suo entourage di effettuare degli studi, in collaborazione con tutti i Ministeri interessati. Nell’autunno dello stesso anno ormai i timori sui possibili effetti di un allargamento della Comunità Europea erano di dominio pubblico, soprattutto nel mondo economico americano. Si cercava di fare delle previsioni sulle eventuali conseguenze dell’ingresso nel Mercato Comune della Gran Bretagna e della Norvegia, dando per scontato l’ingresso di quest’ultima.

In riferimento a tali studi, Kissinger scrisse: «Questa analisi raffigurava il Mercato Comune come un vero e proprio mostro economico, che dominava il commercio e gli accordi monetari mondiali, espelleva dal mercato i prodotti agricoli ed industriali americani ed allungava pian piano i suoi tentacoli fin dentro al Terzo Mondo. Quest’ultimo timore era stato suscitato dagli accordi preferenziali che istituivano rapporti commerciali di carattere particolare ed esclusivo tra i Paesi del Mercato Comune, i loro vicini dell’area del Mediterraneo, e le loro ex colonie. Se poi tutte le ex colonie britanniche si fossero anch’esse inserite in questo reticolo di accordi preferenziali, i rischi si sarebbero moltiplicati»[3]. Uno studio del 10 settembre 1970 realizzato dal Volcker Group , in previsione di un incontro con i Paesi del G-10 e della riunione annuale del Fondo Monetario Internazionale (FMI) – il 21 – 25 settembre a Copenaghen – ancora una volta pose l’accento sulla necessità di limitare la flessibilità del tasso di cambio, decisione che la Comunità Europea avrebbe dovuto condividere come entità unica[4].

La difficile situazione americana richiedeva che Nixon tornasse ad interessarsi della politica economica internazionale. La politica estera stava registrando un «anno travagliato», l’inflazione aveva raggiunto il 5,8% circa e la disoccupazione era al 5%. Oltre a ciò, la bilancia dei pagamenti presentava un deficit inaudito, superiore ai 10 miliardi di dollari. Negli Stati Uniti cominciarono a farsi sempre più insistenti le voci che suggerivano a Nixon di attuare una politica di graduale disimpegno delle responsabilità “imperiali” contratte nei decenni precedenti[5]. Era sempre più evidente a tutti che il sistema di Bretton Woods stava tornando a mostrare pericolose crepe. «Dal punto di vista europeo, per scongiurare il crollo del sistema, gli Stati Uniti dovevano porre dei freni all’inflazione o, per altra via, riportare sotto controllo i tassi d’interessi o, ancora, procedere a svalutare il dollaro rispetto all’oro. Era necessario, insomma, che cominciassero a comportarsi come un Paese normale, accettando il fatto che il declino della loro forza economica imponeva la rinuncia di privilegi del dollaro, tanto più esorbitanti, quanto più privi di legittimazione»[6].

Gli Stati Uniti, invece, continuarono con la loro politica passiva di bilancia di pagamenti, ma – allo stesso tempo – ripresero a valutare le possibili conseguenze dell’abbandono del sistema di Bretton Woods, attraverso una serie di piani di contigenza. Ciò fu accompagnato, sul piano organizzativo, da due importanti novità che rafforzavano l’impressione che l’amministrazione statunitense cominciasse a prepararsi per una diversa fase di politica economica internazionale. Per volere di Nixon, a partire dalla fine di giugno 1970, si iniziò a predisporre la creazione di due nuovi organi: il Council on International Economic Policy e la Commission on International Trade and Investiment. «Già il 30 giugno Nixon aveva infatti deciso di investire una «Troika allargata» della funzione di coordinamento della politica economica internazionale»[7].

Stando, però, a quanto scritto da Kissinger, sembra che a lui si debba attribuire la paternità di buona parte delle suddette decisioni. Egli, infatti, scrisse che – attraverso un memorandum inviato al Presidente il 30 giugno – scese in campo decidendo quali dovessero essere gli obiettivi della politica estera americana. In particolare, Kissinger riteneva che per poter influire su una decisione non bastava opporsi: bisognava anche proporre delle alternative. Sul piano internazionale propose un negoziato con la Comunità Europea, mentre, sul piano interno, elaborò un meccanismo che permetteva ai dicasteri economici di esporre le proprie opinioni al presidente del comitato dei sottosegretari del Consiglio di Sicurezza Nazionale. Questo progetto era, di fatto, un modo per far sì che le questioni riguardanti il Mercato Comune fossero viste come un problema di politica estera[8].

Quale che sia la verità, sta di fatto che la regia dell’operazione restò costantemente nelle mani di Kissinger e dell’astro economico nascente della Casa Bianca, Shultz. Fu all’interno del triangolo formato da Nixon, Kissinger e Shultz che, all’inizio di febbraio del 1971, si andò affermando la parola d’ordine di un «nuovo sistema monetario internazionale»[9], e fu proprio nel 1971 che scoppiò la crisi fra Stati Uniti e i suoi alleati. Ciò, principalmente, a causa del verificarsi di tre circostanze: l’imminente ingresso della Gran Bretagna nel Mercato Comune, l’indebolimento del dollaro e la nomina di John Connally a segretario del Tesoro.

Connally non era un economista, ma – stando a quanto affermato da Kissinger – per Nixon la scelta di quel formidabile rappresentante del Partito Democratico fu un vero e proprio colpo di genio. «Ciò che avvicinava Connally al Presidente era soprattutto la sua capacità di esprimere giudizi su tutta la politica dell’amministrazione, argomentando spesso le proprie idee in politica economica internazionale come aspetti di un disegno più vasto, identificato dalla dottrina di Nixon, vista come “politica di potenza”. Per quanto riguardava il delicato nodo tra politica economica internazionale e le relazioni atlantiche , Connally scriveva: Molte delle scelte politiche internazionali fondamentali [degli Stati Uniti], […] sono state basate sul presupposto che gli altri Paesi si comportino, e si comporteranno in futuro, come partner responsabili e benintenzionati nel sistema commerciale multilaterale. Sembra che sia opportuno riconsiderare questa fondamentale premessa per quanto riguarda la Comunità Europea»[10]. Connally non vedeva ragioni per cui i Paesi stranieri dovessero essere trattati con i guanti di velluto. Credeva nella forza dei negoziati, nei quali era necessario partire da una posizione di forza, perché erano gli altri che si dovevano adeguare ai disegni degli Stati Uniti[11].

Intanto, mentre la Comunità Europea proseguiva il suo percorso verso l’unità monetaria, gli Stati Uniti continuavano a monitorare – attraverso studi – i possibili scenari. Un documento del dipartimento del Tesoro dell’8 maggio 1971, consigliava di approfittare della crisi attuale: per migliorare la situazione della bilancia dei pagamenti americana, per realizzare una più equa distribuzione delle responsabilità nell’ambito della sicurezza mondiale ed in campo economico, e – infine – per mirare alla realizzazione di una riforma di base del sistema monetario internazionale. Il documento suggeriva, tra le altre cose, anche le misure da adottare ed, eventualmente, da utilizzare al fine di influenzare i negoziati. Le suddette misure consistevano: nella sospensione della convertibilità dell’oro; nell’imposizione di restrizioni al commercio; in interventi diplomatici e finanziari destinati a vanificare le attività estere che potevano interferire con gli obiettivi americani; nella riduzione della presenza militare americana in Europa e in Giappone[12].

Un memorandum del 12 maggio – inviato da Ernest Johnson del Consiglio di Sicurezza Nazionale a Kissinger – aveva come oggetto “Le ripercussioni politiche della crisi monetaria europea”. In esso, oltre ad emergere un cauto allarmismo, venivano indicati quattro problemi di carattere politico: il risentimento europeo nei confronti della politica americana della bilancia dei pagamenti, la quale aveva contribuito ad alimentare la crisi; l’ostilità del Congresso degli Stati Uniti rispetto alla rivalutazione tedesca, la quale avrebbe incrementato i costi delle truppe di supporto in Europa; le tensioni interne al Mercato Comune, le quali avrebbero potuto generare ritardi nella realizzazione dell’Unione Monetaria Europea e, in particolare, ritardi inevitabili aggiustamenti della Politica Agricoli Comune; i possibili effetti dell’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità (che avvenne il 1° gennaio 1973, insieme all’Irlanda e alla Danimarca)[13].

Inoltre, durante quelle settimane, Arturh Bloomfield – uno dei più importanti esperti americani di economia monetaria internazionale – affermava davanti al Bureau of Intelligence and Research che l’unione monetaria avrebbe potuto determinare: «Una probabile ulteriore diversione dei traffici commerciali degli Stati Uniti e dei Paesi terzi; la relativa riduzione dei flussi di capitale tra gli Stati Uniti e i Paesi della Comunità Europea rispetto agli Stati Uniti nei mercati dei Paesi terzi; un ruolo ridotto del dollaro come valuta di riserva da parte dei Paesi terzi, un bisogno inferiore di riserve da parte dei paesi della Comunità Europea; la forza accresciuta dei Paesi della Comunità Europea negli affari internazionali»[14].

A seguito di tutto ciò, nella primavera del 1971, iniziò a prendere forma l’idea di preparare l’uscita unilaterale da Bretton Woods. I tempi e le modalità dell’azione erano fortemente connessi al progresso dell’Unione Monetaria Europea. In un memorandum del 2 giugno, McCracken del Council on International Economic Policy (CIEP), esponeva a Nixon una valutazione sulla riforma del sistema monetario internazionale. McCracken sosteneva che un sistema che combinava tassi di cambio rigidamente fissi, con la libera circolazione dei beni e dei capitali, sembrava irrealizzabile. Egli era convinto che si dovesse prendere una decisione urgente sul tipo di sistema monetario che si desiderava sviluppare. Per questo, nel memorandum, proponeva a Nixon di continuare con gli studi sulla flessibilità[16].

Connally, l’8 giugno, commentò con Nixon tale memorandum, sostenendo l’importanza di conservare un basilare spirito di cooperazione. Bisognava ricercare un consenso sul metodo da adottare per realizzare una maggiore flessibilità nella struttura dei tassi di cambio, senza cadere assolutamente nella trappola de “ognuno per sé”. Per Connally, i cambiamenti nella posizione economico-finanziaria degli Stati Uniti a livello internazionale dovevano avvenire senza, e questa era la chiave, minare la fiducia nel dollaro e la generale stabilità del sistema monetario. Fallendo, le forze del nazionalismo economico e dell’isolazionismo di un paese dietro l’altro, comprese quelle degli Stati Uniti, sarebbero potute diventare incontrollabili.

Le difficoltà dei mercati dei cambi esteri – registrate nel maggio 1971 – si erano mitigate in giugno e luglio, ma ad agosto i mercati tornarono ad essere in subbuglio. All’inizio d’agosto, le tendenze protezionistiche e le voci di rappresaglie contro le pratiche commerciali discriminatorie cominciarono a farsi sempre più forti e insistenti. Peterson chiese di imporre restrizioni alle importazioni dal Giappone, a meno che quest’ultimo non rivalutasse lo yen. Connally propose un aumento delle tariffe doganali. Visto che, a questo punto, si profilavano imminenti i rischi di notevoli ripercussioni sul piano della politica internazionale, Kissinger decise di convocare il Senior Review Group[17].

Così, per la prima volta, il Dipartimento di Stato partecipò alla formulazione della politica economica. Il dibattito non portò a nessuna conclusione perché tutti i partecipanti riconobbero che Kissinger non aveva né il potere, né la competenza necessaria a imporre una qualsiasi linea d’azione. I vari rappresentanti, perciò, preferirono tener in serbo la loro posizione in attesa di un incontro al vertice con Connally, durante il quale si sarebbero prese le decisioni definitive[18]. Per ottenere il via libera definitivo, Connally avrebbe dovuto esercitare pressioni su Nixon ancora varie volte, nei giorni successivi.

Il 2 agosto, il Presidente decise di aggiornarsi sulla situazione, mediante un incontro con Connally e Shultz. Urgeva prendere al più presto una decisione sul da farsi. Bisognava valutare attentamente la proposta di Connally. Secondo Shultz, tale proposta rappresentava il “grande passo” e doveva essere esaminata con la massima attenzione. Rimasto con Nixon e con Haldeman – che nel frattempo si era unito a loro – Connally sottolineò risolutamente e con grande novizia di particolari tutti gli elementi virtualmente essenziali della “New Economic Policy”, che Nixon avrebbe poi annunciato il 15 agosto.

Il suo piano d’azione prevedeva, come misure interne: congelamento dei prezzi/salari; restrizione degli investimenti; tassa sul credito e varie riduzioni di spesa. Invece, sul piano internazionale: l’immediata sospensione aurea del dollaro e la conseguente fluttuazione della valuta, l’imposizione di una soprattassa del 10% su tutte le importazioni. Connally riteneva che la convertibilità non potesse essere sostenuta fino alle elezioni del novembre 1972 e che, molto probabilmente, si sarebbe dovuto procedere alla sua sospensione prima della fine dell’anno. Egli raccomandava a Nixon di agire al più presto, in modo tale da dimostrare che era lui l’artefice degli eventi e che aveva il coraggio di prendere una posizione prima di essere costretto a farlo. Nixon era alquanto esitante sulla parte internazionale del programma, ma Connally replicò che i due aspetti, interno ed internazionale, del suo programma erano strettamente connessi[19]. Nel giro di pochi giorni, però, gli eventi trascesero ogni tentativo di riflessione pacifica. Il 6 agosto la Commissione Reuss sui pagamenti internazionali pubblicò i risultati del suo lavoro, “Action Now to Strengthen the U.S. Dollar”, nei quali si faceva appello alla svalutazione unilaterale del dollaro, sospendendo – quindi – la convertibilità dell’oro e stabilendo nuove parità.

Tra il 9 il 12 agosto l’ondata vorticosa di speculazione valutaria innescata dalla sopraindicata pubblicazione creò una situazione di disordine sui mercati, spostando il prezzo dell’oro sul mercato libero oltre i 43 dollari l’oncia[20]. Il 9 agosto, la quotazione del dollaro toccò il suo minimo storico dai tempi della Seconda Guerra mondiale. Nel corso della settimana, le banche centrali estere continuarono ad assorbire l’enorme afflusso di valuta, continuando – così facendo – a sostenere il valore del dollaro.

Coup de théâtre: Nixon svaluta il dollaro

Nell’ufficio del Presidente, l’11 agosto, il centro focale fu l’annuncio – il 15 agosto – della “Nuova Politica Economica”. Nixon sapeva quanto tale argomento innervosisse Burns. Shultz affermò che se gli Stati Uniti avessero compiuto quest’atto così aggressivo nei confronti dei loro partner commerciali, lo avrebbero fatto solo per stabilizzare una situazione che – secondo l’opinione di tutti – andava corretta[21]. Grazie al contributo delle banche centrali, la situazione stava tornando sotto controllo ma, ormai, Connally era deciso ad andare fino in fondo. A mezzogiorno del 12 agosto, il Presidente telefonò il Segretario del Tesoro, che si trovava a San Antonio, in Texas. Connally rassicurò Nixon dicendogli che stava lasciando il Texas per tornare a Washington. I due si chiesero se era più opportuno procedere con la realizzazione del programma in più fasi, o se – invece – era meglio realizzare l’intero piano in una fase sola. Connally era propenso per quest’ultima soluzione, perché non desiderava dare l’impressione che era stato costretto ad agire in fretta, in quanto impreparato.

Nel pomeriggio dello stesso giorno, Connally e Shultz si incontrarono con il Presidente. Quest’ultimo propose tre alternative di tipo politico. La prima, per evitare speculazioni, Connally avrebbe dovuto fare un annuncio in cui dichiarava la temporanea chiusura della finestra aurea e che l’Amministrazione era pronta a discutere, con le altre Nazioni, di un “nuovo, migliore e più stabile sistema”. Connally avrebbe dovuto tacere l’intenzione di voler effettuare il congelamento dei salari/prezzi. La seconda alternativa prevedeva adesso l’annuncio del suddetto congelamento dei salari/prezzi e l’intenzione presentare un pacchetto legislativo quando il Congresso fosse rientrato. Gli aspetti internazionali potevano essere negoziati in vista di una chiusura unilaterale della finestra aurea. Infine, annunciare sia la chiusura della finestra aurea, che il congelamento dei prezzi, in quanto erano le sole azioni compatibili con la crisi corrente, ed il pacchetto legislativo poteva essere preparato per il 7 settembre. Connally riteneva che fosse necessario mettere al corrente il popolo americano dell’intero piano, in modo tale da evitare speculazioni su “cosa si aspetterà dopo”. Egli affermò che sarebbe stato ideale poter annunciare l’intero piano il 7 settembre, ma temeva che gli sviluppi internazionali non avrebbero aspettato così a lungo. Alla fine, decisero di convocare – per il giorno successivo – una riunione a Camp David[22].

All’incontro in cui si decise di procedere con l’abbandono del sistema sancito dagli accordi di Bretton Woods, presenziarono circa una quindicina di persone. Tutto si svolse in un clima di assoluta segretezza, che stava ad indicare la volontà di agire di sorpresa, senza alcuna preventiva consultazione. I convocati, cioè i responsabili dei dicasteri economici, il governatore della banca centrale, i più stretti collaboratori di Nixon e i membri della CEA, furono tenuti ad avvertire staff e famiglie di essere occupati durante il week – end e di non poter dire dove fossero, con chi e per quale motivo[23].

Come riporta Haldeman (Harry Robbins Haldeman, Capo di gabinetto della Casa Bianca della presidenza di Richard Nixon dal ’69 al ’73) nei suoi diari: «L’incontro di Camp David, il quale si svolse nel più grande riserbo possibile nei confronti della “Economic Troika”, ebbe inizio nel pomeriggio del 13 agosto». La misura principale con la quale Connally iniziò la riunione fu la chiusura della finestra aurea, a cui avrebbero fatto seguito tutte le altre misure[24]. Dopo una lunga discussione, il giorno seguente furono studiati i particolari tecnici e “mediatici” dell’operazione. «L’importanza che Nixon attribuiva ai meccanismi del discorso televisivo deve essere ritenuta parte integrante della costruzione dell’evento del 15 agosto 1971, capace anche essa di influenzare le reazioni sul brevissimo periodo e, quindi, anche l’esito complessivo dell’operazione»[25].

Così, la sera del 15 agosto, con il suo discorso radio-televisivo dal titolo “The Chellange of Peace”, Nixon annunciò alla Nazione e agli osservatori internazionali la sua “New Economic Policy”. Egli cominciò dicendo che diverse volte, nel corso degli ultimi due anni, si era rivolto alla Nazione per parlare dei problemi relativi alla fine della guerra in Vietnam . Dal momento che dei progressi per il raggiungimento di tale obiettivo erano stati fatti, riteneva fosse giunto il momento opportuno per rivolgere l’attenzione americana alle” sfide della pace”.

L’America, secondo Nixon, aveva l’opportunità più importante di quel secolo, ovvero realizzare due dei suoi più grandi ideali: portare la pace ad una intera generazione e creare una nuova prosperità senza guerra. Una prosperità senza guerra richiedeva un’azione su tre fronti: bisognava creare più e migliori posti di lavoro; si doveva arrestare l’aumento del costo della vita; bisognava proteggere il dollaro dagli attacchi degli speculatori monetari internazionali, perché il dollaro americano rappresentava il pilastro della stabilità monetaria nel mondo. Negli ultimi sette anni, ogni anno, si era verificata una crisi monetaria. Le suddette crisi non erano state generate dall’uomo che lavora, né dagl’investitori o dai veri produttori di ricchezza, piuttosto dagli speculatori internazionali, che nelle ultime settimane avevano dichiarato guerra al dollaro americano. Per far fronte a tale situazione, Nixon dichiarò di aver dato mandato al Segretario del Tesoro, affinché adottasse le misure necessarie per difendere il dollaro dagli attacchi degli speculatori. Egli aveva suggerito a Connally di sospendere temporaneamente la convertibilità del dollaro in oro[26].

Nel suo discorso, Nixon cercò di rassicurare gli americani sul babau chiamato svalutazione. Sostenne che gli effetti di quest’azione sarebbero stati quelli di stabilizzare il dollaro. Era consapevole del fatto che la sopraindicata misura non avrebbe fatto guadagnare agli Stati Uniti – sul piano internazionale – amici, ma il principale interesse dell’Amministrazione erano i lavoratori americani ed una giusta concorrenza nel mondo. Oltre alla misura già indicata, Nixon affermò anche che aveva deciso di fare un ulteriore passo per proteggere il dollaro, migliorare la bilancia dei pagamenti e aumentare l’occupazione americana.

Come misura temporanea, aveva deciso di introdurre una tassa addizionale del 10% sui beni importati. Questa rappresentava il modo migliore per effettuare il controllo diretto sull’importazione. Non era una misura adottata per colpire qualche altro paese, ma era un’azione realizzata per far in modo che i produttori americani non fossero penalizzati da un ingiusto tasso di cambio[27]. Quest’insieme di interventi rappresentò la “Nuova Politica Economica”. Con il suo discorso, Nixon – in modo retorico – fece appello allo spirito nazionalistico degli americani al fine di ottenere un facile consenso popolare. In pratica, con esso non fece altro che avvalorare il cosiddetto “dilemma di Triffin”. In sostanza, la contraddizione – evidenziata nel 1960 dall’economista belga Triffin – consisteva nel fatto che il disavanzo della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti era necessario per alimentare la liquidità mondiale, ma – allo stesso tempo – il permanere dei disavanzi avrebbe minato la fiducia nel dollaro stesso e quindi sulla sua convertibilità in oro[28].

Così, con un “coup de théâtre”, Nixon sganciò il dollaro dall’oro, decretando – di fatto – il crollo degli accordi di Bretton Wood. Le prime reazioni in Europa e nel resto del mondo furono di totale disorientamento: «Da un lato vi era uno spiccato e diffuso risentimento per l’unilateralità del gesto e per l’assoluta mancanza di consultazione preventiva; dall’altra vi era anche, in alcuni governi come quello tedesco e italiano, la persuasione che quelle stesse modalità trovassero giustificazioni nell’estremo stato di necessità adottato dalla superpotenza[29]. L’azione americana aveva preso tutti in contropiede. A primo impatto, non fu chiaro se dare maggiore importanza all’aspetto monetario o alla sovrattassa, vista come azione neoprotezionistica. I giapponesi definirono la decisione di Nixon «il “secondo Nixon Shokku”: la scossa che colse il mondo di sorpresa, come un mese prima l’aveva colto la missione segreta di Kissinger a Pechino, che reintroduceva la Cina nel gioco della politica mondiale»[30].

Alla fine, «nell’impossibilità di svolgere una politica “europea” in risposta all’azione americana, i Paesi europei si mossero in ordine sparso: la Francia applicò il “two-tier exchange system”, cioè un doppio sistema con cambio fisso sul dollaro per le transazioni commerciali e cambi liberi per le operazioni finanziarie. Gli altri Paesi della Comunità Europea, Austria, Paesi scandinavi, Gran Bretagna e Giappone, decisero di far fluttuare le proprie valute». E alla fine, con il nuovo accordo monetario – gli Smithsonian Agreements, firmato il 18 dicembre 1971 – gli Stati Uniti continuarono a condurre il proprio gioco sulla scacchiera internazionale. Infatti, attraverso quanto sancito dagli Smithsonian Agreements, il governo americano avrebbe potuto continuare a trattare i vantaggi che procurava una moneta di fatto mondiale, senza preoccuparsi del deficit strutturale della loro bilancia dei pagamenti. Avrebbe potuto continuare a finanziare deficit senza essere costretto a convertire dollari in oro.
Così, come da copione, l’Europa – per l’ennesima volta – non riuscì ad agire all’unisono, a parlare con un’unica voce, come Jean Monnet aveva auspicato.

Note:

[1] – Foreing relations of the United States (FRUS), 1969-1976, Volume I doc. n. 61.
[2] – BASOSI, DUCCI, Il Governo del dollaro, Interdipendenza economica e potere statunitense negli anni di Richard Nixon (1969-1973), Firenze, Edizione Polistampa, 2006, p.115, 120.
[3] – KISSINGER, HENRY, Gli anni della Casa Bianca, Milano Sugarco, 1980, p. 342.
[4] – FRUS, 1969-1976, Volume III, doc. n. 148.
[5] – D. BASOSI, op. cit., p. 126.
[6] – Idem, p. 137.
[7] – FRUS, 1969-1976, Volume III, doc. n. 150.
[8] – H. KISSINGER, op. cit., p. 343.
[9] – D. BASOSI, op. cit., p. 142.
[10] – Idem, p. 146.
[11] – H. KISSINGER, op. cit., p. 753.
[12] – FRUS, 1969-1976, Volume III, doc. n. 152.
[13] – Idem, doc. n. 154. Passaggio tratto dall’approfondimento del già citato: “Euro or not Euro: that is the question?”.
[14] – D. BASOSI, op. cit., p. 142.
[15] – FRUS, 1969-1976, Volume III, doc. n. 157.
[16] – Idem, doc. n. 158.
[17] – H. KISSINGER, op. cit., p. 753.
[18] – Ibidem.
[19] – FRUS, 1969-1976, Volume III, doc. n. 164.
[20] – D. BASOSI, op. cit., p. 160.
[21] – FRUS, 1969-1976, Volume III, doc. n. 164.
[22] – Ibidem.
[23] – D. BASOSI, op. cit., p. 162.
[24] – H.R. HALDEMAN, The Haldeman Diaries: Inside the Nixon White House, New York, Putman, 1994, pp. 340-343.
[25] – D. BASOSI, op. cit., pp. 163-164.
[26] – American Foreing Relation (AFR), vol. 30, doc. 142, New York, 1971, pp. 577-581.
[27] – Ibidem.
[28] – TRIFFIN, ROBERT, Gold and Dollar Crisis: The Future of Convertibility, New Haven, Conn., Yale University Press, 1960.
[29] – D. BASOSI, op. cit, pp. 166-169.
[30] – DUCCI, ROBERTO, Le speranze d’Europa (carte sparse 1943-1985), a cura di Guido Lenzi, Rubettino, 2007, p. 217.
[31] – Ibidem.

Rosy Merola

Rosy Merola

Definisco il mio percorso professionale come un “volo pindarico” dalla Laurea in Economia e Commercio al Giornalismo. Giornalista pubblicista, Addetta stampa, Marketing&Communication Manager, Founder di SinergicaMentis. Da diversi anni mi occupo della redazione di articoli, note e recensioni di diverso contenuto. Per il percorso di studi fatto, tendenzialmente, mi occupo di tematiche economiche. Nello specifico, quando è possibile, mi piace mettere in evidenza il lato positivo del nostro Made in Italy, scrivendo delle eccellenze, start-up, e delle storie di uomini e donne che lo rendono speciale. Tuttavia, una tantum, confesso di cadere nella tentazione di scrivere qualcosa che esula dalla sfera economico-finanziaria (Mea Culpa!). Spaziando dall'arte, alla musica, ai libri, alla cultura in generale. Con un occhio di riguardo nei confronti dei giovani esordienti e di quelle realtà che mi piace definire "startup culturali". Perché, se c'è una frase che proprio non riesco a digerire è che: "La cultura non dà da mangiare". Una affermazione che non è ammissibile. Soprattutto in Italia.