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#SOSVenezuela: mi alma llanera-cilentana

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«Yo nací en esa ribera del Arauca vibrador, soy hermano de la espuma, de las garzas, de las rosas y del sol!» (traduzione: “Sono nata sulla riva del vibrante fiume Arauca. Sorella della schiuma, degli aironi, delle rose, e del sole!”). Così recitano i versi di una canzone tradizionale (“Alma llanera”) – in stile di joropo -, che in Venezuela è considerata quasi un secondo inno nazionale. Eh già! Perché, tra i diversi frammenti interiori colorati che mi compongono – facendomi sentire come una sorta di caleidoscopio e che mi aiutano a “vedere (il) bello”[1] – sono vividi in me anche l’“amarillo, azul y rojo”:  i colori della bandiera venezuelana.

Naturalmente, nulla di personale nei confronti del Cilento, una terra che ti penetra dentro e a cui appartengono le mie radici, il mio DNA. Tuttavia, come si può comprendere – per una bambina di otto anni –, rappresenta una sorta di dramma dover lasciare una città dove fa sempre caldo (al limite si deve fare i conti con la stagione delle piogge), dove il sabato non si andava a scuola (nel mio caso “l’Amerigo Vespucci”, una scuola italo-venezuelana organizzata come quelle che siamo abituati a vedere nei telefilm americani), ma ti portavano al mare o in piscina. Una città che – quando l’abbiamo lasciata –, era molto più avanti e moderna rispetto ad alcune delle più importanti città italiane. Questo, presumo, grazie alla multietnicità e alla multiculturalità che da sempre contraddistingue Caracas. Piena di attività ricreative e culturali di ogni genere (come “Parque dell’Este”, anche noto come “Parque Generalísimo Francisco de Miranda”. Uno spazio di circa 80 ettari, con al suo interno un lago, uno zoo, un planetario, diversi giardini, oltre che numerosi campi da calcio e da basket) e per tutti i gusti.

Inoltre, come dimenticare l’atmosfera natalizia che – grazie a “las gaitas” –, si iniziava a percepire nell’aria, nonostante il caldo, fin dal mese di novembre. A ciò si aggiunge, il fiume Orinoco, la vicina Isla Margarita, Los Roques, le vacanze a Puerto la Cruz. I molteplici paesaggi venezuelani (dalle foreste tropicali al deserto, con la conseguente caratteristica flora e fauna), la sua musica, i suoi balli (tipo el merengue), la cioccolata “Savoy” e suoi “Toronto”, il “Toddy”. Insomma, i suoi infiniti profumi e sapori. Infatti, nonostante io sia una fervente sostenitrice della dieta mediterranea (e non potrebbe essere altrimenti, con Pioppi vicina a pochi chilometri di distanza), devo ammettere che a volte provo nostalgia per alcune delle specialità tipiche (anche se, una tantum, le prepariamo anche qui) quali: “arepa”, “hallaca”, “pan de jamòn” e per i diversi frutti tropicali.

Tuttavia, il processo di integrazione nel luogo in cui risiedo ora non è stato semplice ed immediato anche per altri motivi. Infatti, nonostante fossi figlia di due cilentani D.O.C., all’inizio sono stata percepita con diffidenza, come una straniera. “Hecha”, così qualcuno definiva chi – come me – era nata/o in Venezuela: ovvero il corrispondente dell’inglese “made” e dell’italiano “fatto”. Una situazione da cui scaturiva una senso di disagio, di non appartenenza, su cui – tra gli altri – si sono pronunciati alcuni sociologi e che trova una spiegazione molto più semplice in un brano (“Extranjero”) composto da Franco De Vita (uno dei cantautori ed autori più noti in sud America e non solo che, guarda caso,  è nato anche lui qui, dove vivo), dedicato al padre: «Extranjero toda tu vida seras extranjero. Y te preguntas cual sera tu patria. Un extranjero nunca tendrá patria».

18924f1885d0dedeaa9424e29ef454dd«Straniero, tutta la tua vita sarà da straniero. E ti domandi quale sarà la tua patria. Uno straniero non avrà mai una patria». Ed è proprio ciò che si prova. Si sente di non appartenere più a nessun posto. Eppure, a Caracas, tale sensazione si percepiva di meno. Sarà che si tratta di una città abituata ad ospitare persone di diverse etnie: dagli italiani agli spagnoli (con la loro dominazione dopo la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo), dai francesi ai tedeschi, dagli olandesi agli africani, dai cinesi ai giapponesi. Senza dimenticare i “cugini” americani e i loro petrodollari (croce e delizia del Venezuela). Così sono cresciuta rispettando tutti, non badando molto alla differenza del colore della pelle e di religione, alla contrapposizione tra nord e sud. Senza troppi pregiudizi, ma considerando tutto ciò come un arricchimento umano, che ha contribuito a plasmare questa anima (alma) llanera-cilentana che posseggo. La quale si agita, si addolora, si indigna pensando a come hanno ridotto oggi quel Paese. A causa di ciò, alla luce delle tristi vicende che – solo negli ultimi tempi – sono sotto i nostri occhi, i miei ricordi sono ormai vecchie istantanee del bel tempo che fu.

La situazione in Venezuela, infatti, è sempre più critica. Da anni, nell’indifferenza quasi totale, la popolazione è scesa in piazza per protestare contro l’inflazione alle stelle, la carenza di beni di prima necessità, lo stato di corruzione e malagiustizia del governo del Presidente Nicolas Maduro, eletto nell’aprile 2013. Con una conseguente escalation di violenza macchiata, purtroppo, anche di sangue.

Tuttavia questa è la cronaca che arriva al resto del mondo soltanto negli ultimi tempi. Ma non lo è per il popolo venezuelano, da anni vessato. Situazione che è andata via via peggiorando da quando – ad assumere le redini del paese – è stato lo scomparso leader maximo Hugo Chavez.

Una vicenda che  – come già sottolineato – è passata in sordina. Perché, come puntualizza una delle tante testimonianze del posto: «Questo silenzio sulla situazione in Venezuela è dovuto alla censura governativa. Sono state oscurate tutte le televisioni private. Se la gente si sintonizza sui canali di Stato trasmettono telenovelas e discorsi del presidente, ma non c’è alcun accenno ai morti di Caracas e alla feroce repressione di Maduro». E ancora: «Dopo la morte di Chavez le cose sono ulteriormente peggiorate, anche se non è che durante i 15 anni di chavismo si sia vissuto bene. Le nazionalizzazioni volute da Chavez hanno portato alla situazione attuale. Nei supermercati manca di tutto. Gli scaffali sono vuoti. Non c’è latte, non c’è pane, non c’è carta igienica. E non c’è nemmeno il caffè. Immaginate, un Paese sudamericano dove non c’è più caffè!». Mancano l’acqua, i farmaci. Si assiste al razionamento dell’energia elettrica. Si vive con la paura di essere aggrediti, di trovare la propria casa occupata e di non poter far nulla per poterla liberare.

«Perché – come ha scritto Vázquez Montalbán Manuel – anche se si sa che Dio è morto, che l’Uomo è morto, che Marx è morto, che io non sto molto bene e che nemmeno i profeti del già accaduto sanno con certezza cosa sia accaduto, bisogna credere in qualcosa, oltre che nell’esistenza del colesterolo». Per questo io credo nel «bravo pueblo, que el yugo lanzó».

Rosy Merola – Founder SinergicaMentis

[1] – Kαλειδοσκοπεω: dall’ingl. kaleidoscope, coniato nel 1817 dall’inventore sir D. Brewster con il gr. καλός «bello», εἶδος «figura» e tema di σκοπέω «guardo».

 

Rosy Merola

Definisco il mio percorso professionale come un “volo pindarico” dalla Laurea in Economia e Commercio al Giornalismo. Giornalista pubblicista, Addetta stampa, Marketing&Communication Manager, Founder di SinergicaMentis. Da diversi anni mi occupo della redazione di articoli, note e recensioni di diverso contenuto. Per il percorso di studi fatto, tendenzialmente, mi occupo di tematiche economiche. Nello specifico, quando è possibile, mi piace mettere in evidenza il lato positivo del nostro Made in Italy, scrivendo delle eccellenze, start-up, e delle storie di uomini e donne che lo rendono speciale. Tuttavia, una tantum, confesso di cadere nella tentazione di scrivere qualcosa che esula dalla sfera economico-finanziaria (Mea Culpa!). Spaziando dall'arte, alla musica, ai libri, alla cultura in generale. Con un occhio di riguardo nei confronti dei giovani esordienti e di quelle realtà che mi piace definire "startup culturali". Perché, se c'è una frase che proprio non riesco a digerire è che: "La cultura non dà da mangiare". Una affermazione che non è ammissibile. Soprattutto in Italia.