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De André, la sua voce “ormai canta nel vento”

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«Non credo che sapesse quanto era amato: è stata una sorpresa per tutti; molti l’hanno scoperto dopo la sua assenza. I suoi testi esistono, la sua voce la ascoltiamo, ma la voce che conosco, quando mi parlava, mi manca tanto. Il suo mondo l’aveva dentro di sé»[1], sottolinea con dolce tristezza la moglie Dori Ghezzi. Tuttavia, pur avendoci lasciato,  la sua inconfondibile voce – “che ormai canta nel vento”[2] dall’11 gennaio 1999 -, manca tanto anche a chi, pur non conoscendo il suo mondo interiore, ha amato il suo essere “sempre in direzione ostinata e contraria”[3].

Si sente la mancanza, nello scenario attuale che esalta il culto del superfluo, del materialismo, delle luci della ribalta, una persona che affermi: «Sono abbastanza spaventato dall’eccesso di lodi, da qualsiasi eccesso di consensi, perché da ogni vertice di grazia si può prevedere che si scivolerà in disgrazia». E, alla luce di queste parole, come dar torto a Indro Montanelli quando, all’indomani del clamore dei funerali di Faber, scrisse: «[…] Avevo e conservo molta simpatia per quel ragazzo, e non soltanto per le canzoni che di lui mi sono arrivate all’orecchio, ma anche per il suo modo di essere, schivo e riservato, e quindi in perfetto tono col suo modo di cantare: abassa voce. Mi chiedo perciò se tutta la spettacolarità data alla sua morte, mobilitando persino “L’Eroica” di Beethoven, gli sarebbe piaciuta. Anzi, non me lo chiedo nemmeno perché sono sicuro che non gli sarebbe piaciuta per nulla, e che avrebbe preferito andarsene com’era vissuto: in punta di piedi»[4].

Montanelli, continua evidenziando: «Capisco, o credo di capire, perché tutto questo sia avvenuto e avvenga. Consapevolmente o no, De André è stato uno dei migliori interpreti di un mondo e di una società, non soltanto italiana, che hanno perso il senso e la misura dei valori – o almeno di quelli che noi abbiamo sempre considerato tali – e li ha sostituiti col culto dell’Effimero. Non è colpa di De André, ammesso che di colpa si possa parlare. E’ colpa del momento in cui De André è nato e vissuto, e che oltre il “momento” non va. Ma dentro l’epoca, questa epoca, c’è più De André. Ma il mondo e la società in cui viviamo sono questi, ubriachi di Effimero. Qualcuno si è arrabbiato perché la sua scomparsa ha fatto molto più rumore di quella di un Borges o di un Montale, che per la Poesia rappresentavano certamente qualcosa di più epocale di un De André»[5].

Faber, che era solito rispondere a chi gli chiedeva se si considerasse un poeta, «Benedetto Croce diceva che fino all’età di 18 anni tutti scrivono poesie. Dai 18 in poi rimangono a sciverle due categorie di persone: i poeti e i cretini. Quindi io, per pracauzione, preferirei considerarmi un cantautore», si sarebbe sentito a disagio nel vedersi “divo suo malgrado”.

Cantautore, poeta, intimista, iconoclasto, autonomo, irridente, fra bestemmia e misticismo, introspettivo, trasversale, cerebrale, attuale, senza tempo, intellettuale ma, allo stesso tempo popolare. «Il suo individualismo anarchico, inguaribilmente solitario, malinconico, un po’ esistenzialista di borghese a disagio si è sempre preoccupato soprattutto del sociale, del politico, in poche parole più degli altri che di se stesso. Ecco il punto. Fabrizio De André moralista? In certo modo sì, un moralista civile, pubblico, che ha vissuto da solo, ma insieme a noi, i cambiamenti degli ultimi trent’anni fino all’involuzione dei rapporti, alla perdita dell’utopia e all’attuale prevalenza delle ‘leggi del branco’. Sempre fuori dal coro, nella sua solitudine di non integrato, De André ci ha parlato anzitutto di libertà, ci ha invitato a pensare con la nostra testa rifiutando dogmi, parole d’ordine e slogan da combattimento»[6] .

Infatti, Faber non amava l’ordine costituito e non gli interessava il punto di vista del potere ma quello delle singole persone, soprattutto quelle più bistrattate che “se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo”[7]. Menestrello degli esclusi, “Non per demagogia o per poter dire ‘io sono socialmente utile’ ma proprio per soddisfare delle mie esigenze private”, come lui stesso affermava.

Nonostante sia vero che “è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati”[8], in un’epoca sempre più “ubriaca di effimero“, pesano come un macigno questi anni di sua assenza e le canzoni lasciateci in eredità rappresentano solo “una goccia di splendore”[9] nel suo MÄ [10] di silenzio.

Ciao Faber, amico Fragile. “Evaporato in una nuvola rossa, in una delle molte feritoie della notte con un bisogno d’attenzione e d’amore troppo”[11], “Se mi vuoi bene piangi per essere corrisposti” [12].

Rosy Merola 

Fonti:
[1]- Estratto da un’intervista rilasciata da Dory Ghezzy a “La Storia siamo noi”.
[2]- “Preghiera In Gennaio”, Volume I (1967).
[3]- “Smisurata Preghiera”, Anime Salve (1996).
[4] e [5]- Montanelli sulla morte di De André e del ‘senso della misura’ (21 Gen 99).
[6]- Addio Fabrizio, poeta anarchico di fine millennio di Giacomo Pellicciotti.
[7]- Verso tratto dalla canzone di De Andrè, “La città vecchia”, che con molta probabilità trovò ispirazione nella poesia di Umberto Saba, Città vecchia ( da Trieste e una donna, 1910-12).
[8]- “Giugno ’73”, Volume 8 (1975).
[9]- Fabrizio De Andrè. Una goccia di splendore. Un’autobiografia per parole e immagini, 2010, 334 pp., Editore Rizzoli.
[10]- “Creuza De Mä”, Creuza De Mä (1984).
[11]- “Amico Fragile”, Volume 8 (1975).
[12]- Pensieri spari presi anche nel sito “La storia siamo noi” e su www.bielle.org/fabriziodeandre/.


Rosy Merola

Definisco il mio percorso professionale come un “volo pindarico” dalla Laurea in Economia e Commercio al Giornalismo. Giornalista pubblicista, Addetta stampa, Marketing&Communication Manager, Founder di SinergicaMentis. Da diversi anni mi occupo della redazione di articoli, note e recensioni di diverso contenuto. Per il percorso di studi fatto, tendenzialmente, mi occupo di tematiche economiche. Nello specifico, quando è possibile, mi piace mettere in evidenza il lato positivo del nostro Made in Italy, scrivendo delle eccellenze, start-up, e delle storie di uomini e donne che lo rendono speciale. Tuttavia, una tantum, confesso di cadere nella tentazione di scrivere qualcosa che esula dalla sfera economico-finanziaria (Mea Culpa!). Spaziando dall'arte, alla musica, ai libri, alla cultura in generale. Con un occhio di riguardo nei confronti dei giovani esordienti e di quelle realtà che mi piace definire "startup culturali". Perché, se c'è una frase che proprio non riesco a digerire è che: "La cultura non dà da mangiare". Una affermazione che non è ammissibile. Soprattutto in Italia.