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La Fotografia, l’Arte e la “grande bellezza” interiore di Malena Mazza

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Da sempre convinta del ruolo fondamentale che dovrebbe avere l’inestimato patrimonio culturale, artistico, architettonico e paesaggistico dell’Italia, come volano economico del Belpaese – seguo con un occhio di riguardo tutto ciò che vi ruota intorno, ivi compresi gli investimenti in oggetti d’arte (nel senso più ampio del termine). Questo sia perché la “stabilità del valore”, nel tempo, rappresenta uno dei punti di forza di tale tipologia d’investimenti, ma soprattutto perché si tratta di un bene ‘fruibile’, nel senso che – rispetto ad ogni altra forma di investimento tradizionale – l’arte consente al detentore di fruire esteticamente dell’opera. Per via di ciò, più volte abbiamo trattato argomenti concernenti diversi artisti e le loro performance nelle aste. A tal proposito, in questo peculiare percorso, ci vogliamo soffermare su un’artista italiana, le cui opere – dal 2005 – sono protagoniste ed oggetto delle attenzioni dei collezionisti che frequentano Sotheby’s: Malena Mazza.

Riduttivo definirla soltanto “fotografa”, visto il suo districarsi nei diversi campi delle arti visive. Infatti, Malena Mazza muove i suoi primi passi nel mondo del Cinema (diventando, in breve tempo, Primo Assistente di registi di fama internazionale come i fratelli Taviani, Michelangelo Antonioni, Maurizio Zaccaro e molti altri), per poi passare alla regia di videoclip, spot pubblicitari e programmi televisivi. Segue l’incontro con la moda, che immortala con il suo “obiettivo”, a cui si aggiungono anche numerose campagne pubblicitarie. Protagonista di diverse mostre personali – in Italia e all’estero – le sue opere sono state esposte anche alla Biennale di Venezia (nel 1995, 2003 e 2011). Tuttavia, vogliamo iniziare questa conoscenza, partendo dall’ultimo evento che vede Malena Mazza quale protagonista:

La Sua ultima esposizione è quella che – lo scorso 24 luglio – si è svolta a New York, dove le sue immagini sono state in mostra sul grande Billboard di Times Square. Cosa si prova a vedere le proprio opere esposte in tale spettacolare contesto?
«Devo dire che è stata un’emozione bellissima. Premesso che non sono mai soddisfatta di nulla, comunque fa molto piacere. In merito all’esposizione, prima sono stata contattata da una gallerista di New York, la quale aveva trovato le mie immagini tramite internet e voleva acquistarne alcune per una corporate. A seguito di ciò, c’è stato un incontro con delle persone che stavano cercando degli artisti per poter realizzare tale esposizione. La selezione, tuttavia, è avvenuta attraverso una sorta di concorso. Le opere, infatti, sono state votate da una giuria di fotografi. Insieme a me, a Times Square, hanno esposto anche altri artisti, ma io ero l’unica italiana tra i presenti».

Dopo l’esposizione sul Billboard di Times Square – che a mio modesto parere farà salire le quotazioni delle Sue opere la prossima volta che verranno battute da Sotheby’s (glielo auguro) – ha già in programma altre personali in cui i Suoi lavori si potranno ammirare?
«La prossima sarà all’Art Basel di Miami Beach (Florida). Comunque, adesso, è in corso quella che è stata inaugurata – a fine luglio – a Verona e che proseguirà fino ai primi di ottobre. In particolare, quest’ultima, si tratta della riproposizione della mostra “Desperate Housewives”, che è stata presentata l’anno scorso a Milano, con l’aggiunta di diverse foto nuove».

Facendo un passo indietro – come accennato all’inizio – Lei ha preso parte a tre edizioni della Biennale di Venezia. Due delle quali aventi una valenza particolare. Infatti, quella del 1995 – intitolata “Identità e alterità” – è l’edizione del centenario che, per la prima volta, fu affidata a un direttore non italiano, il francese Jean Clair. Esposizione bella, colta, con un omaggio ai maestri del XX secolo. Così estesa da togliere, purtroppo, spazio al Padiglione Italia e agli italiani. E poi, l’edizione del 2011, ovvero quella delle celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia, quando la curatela del Padiglione Italia fu affidata – non senza far storcere il naso a qualcuno – a Vittorio Sgarbi. In base alla sua esperienza, nel corso del tempo, quanto è cambiata – se è cambiata – tale manifestazione e quale edizione Le è rimasta più dentro?
«In tanti casi, forse anche a ragione, Sgarbi è stato spesso contestato. Tuttavia, soprattutto riguardo all’edizione della Biennale di Venezia curata da lui, devo dire che – a mio parere – è stato uno dei pochi che ha valorizzato tantissimo l’arte italiana. Nel nostro Paese ci sono una miriade di artisti importanti che non avevano mai partecipato alla Biennale, mentre – per converso – ce n’erano altri sconosciuti provenienti da ogni parte del mondo, che erano stati invitati ad esporre. Per cui, Sgarbi – coadiuvato da un team di persone altamente qualificate – ha fatto un lavoro davvero capillare, volto a valorizzare gli artisti e l’arte italiana. Questo, a mio parere, è stato un lavoro molto importante. Per quanto concerne i cambiamenti, una volta la Biennale era più improntata sui canoni classici, sugli schemi artistici universalmente riconosciuti. Adesso, forse anche segno del tempo che stiamo vivendo, diventa tutto un po’ meno chiaro, poco leggibile. Così, a volte vengono esposte opere meravigliose e, allo stesso tempo, cose che a me sembrano orripilanti. In generale, in questo particolare momento storico, sembra che funzioni tutto e il contrario di tutto. Non si sa bene da che parte ci stiamo muovendo e questo si riflette anche nell’arte. Ci sono artisti di ogni genere e si fa fatica a capirli tutti. Era difficile prima, adesso – visto che siamo difronte ad un panorama enorme – diventa quasi un’impresa disperata. Invece, per quanto riguarda l’edizione che mi è rimasta più dentro, direi proprio l’edizione del 2011. È quella che mi ha dato più soddisfazioni».

Entrando nel merito del Suo lavoro, spesso, immortala donne “patinate” simbolo del culto dell’effimero. Tuttavia, quando esprime la Sua arte, il Suo obiettivo cerca di andare oltre l’esteriorità, catturando l’essenza della donna. Sembra quasi che Lei senta il bisogno di bilanciare questi due mondi, ovvero l’artefatto e il reale. Posto che – osservando un’opera – ciascuno ha il proprio modo di percepirla ed interpretarla, c’è un messaggio che intende comunicare attraverso i Suoi lavori?
«La donna, secondo me, è costretta ad avere un aspetto perfetto. Quindi, per poter affrontare ciò, si dovrebbe cercare di trovare una corrispondenza, un equilibrio, tra l’aspetto esterno e quello interiore (a tal proposito, avevo fatto anche una ricerca sull’età e gli anziani). Tuttavia, pur non essendo convinta che ciò traspaia dalle mie foto, mi piacerebbe riuscire a catturare – anche dall’aspetto esteriore – qualcosa che vada al di là. Una bellezza che vada oltre. Una corrispondenza, una trasparenza tra quello che è il bagaglio culturale e la bellezza, per far sì che la donna non diventi sempre più schiava dell’aspetto fisico, di tali stereotipi imposti dalla società. Per questo, nei miei lavori, cerco di fare leva su una chiave di lettura ironica, prendendo un po’ in giro la donna. Infatti, sembra che la donna sia sempre più “inscatolata” in degli schemi che forse – in parte – si è creata un po’ da sola. Una costrizione continua, non puoi mai lasciarti andare e devi essere sempre perfetta. Questo in ogni ambito, sia professionale che familiare. Il venir meno – in una società – di qualsiasi tipo di valore, enfatizza tutto ciò che è superficiale. Così, alla fine, l’essenza viene penalizzata».

Restando in tema di donne, in quanto tale, Lei ha avuto delle difficoltà – soprattutto ai Suoi esordi lavorativi – nel farsi prendere professionalmente sul serio?
«Io ho cominciato, nel Cinema, come assistente operatore. Adesso, con l’avvento del digitale, non si fa più, visto che si usava la pellicola. Tra l’altro, essendo un lavoro molto tecnico, sono stata anche la prima donna in Italia a farlo. Per questo, all’inizio, sono stata molto discriminata. Mi dicevano che sarebbe stato impossibile, che era un lavoro molto faticoso fisicamente e così via. Per cui, per riuscire a farlo, dovevo dimostrare di essere la più brava, altrimenti perché mi avrebbero dovuto chiamare. Alla fine, però, ero diventata così brava che, per il fatto stesso di essere una donna, ho cominciato a lavorare tantissimo. Lavoravo sempre. Per anni, ho lavorato tutti i giorni, cosa che nel cinema (lavoravo nel cinema pubblicitario, ma ho lavorato con grossi nomi – i fratelli Taviani, Antonioni e molti altri – perché, ai tempi, nel settore pubblicitario lavoravano personaggi di spessore) è difficile che ciò succeda. Diciamo che sono diventata una specie di “moda”. Così, successivamente, c’è stata un po’ di discriminazione al contrario. Però, inizialmente, è stato difficilissimo cominciare. La tenacia è stata fondamentale. Poi, differentemente a quanto avvenga di solito, ho fatto il percorso al contrario passando dal cinema alla fotografia».

Oltre all’universo femminile, cos’altro cattura il Suo obiettivo?
«Ho sempre amato fotografare di tutto. Ciò nonostante, in passato, si sostenesse che un fotografo – per essere veramente bravo e professionale – dovesse specializzarsi in una cosa sola. Uno che si dedicava a più di una cosa non era ritenuto credibile. A me questa visione non è mai piaciuta, perché – sempre secondo me – si finisce per diventare manierista a fare sempre le stesse cose. Se uno ha un proprio punto di vista, anche se fotografa un oggetto, una donna o un paesaggio, si riconosce il linguaggio, lo stile di quel fotografo. Devo dire che, forse, alla lunga ho avuto ragione io. Adesso, infatti, il fotografo è chiamato a districarsi in più ambiti. Inoltre, impegnarsi in più campi, ti apre delle visioni diverse. Più espandi il tuo raggio d’azione e più ti si apre il cervello. Fare le stesse cose, oltre ad essere noioso, ti fa diventare perfezionista, manierista nel tuo ambito, però perdi la forza dell’immagine».

Pensando al Suo lavoro come fotografa di moda per alcune delle più importanti ed influenti testate, mi viene in mente una frase di uno dei maggiori esponenti dell’alta moda Made in Italy, Valentino Garavani, secondo cui: «L’eleganza è l’equilibrio tra proporzioni, emozione e sorpresa». Traslandola alla fotografia, si può dire che anche quest’ultima è l’equilibrio tra le tre sopraindicate espressioni?
«Direi proprio di sì. Sorpresa, nel senso che si dà un punto di vista diverso dal solito. Si offre un punto di vista personale».

«Nel futuro ognuno sarà famoso per quindici minuti». Così sosteneva Andy Warhol, pur non potendo prevedere la nascita dei social network e il proliferare di tante “tendenze”, tra cui il “selfie”. Lei, da professionista della fotografia, cosa pensa di questa “moda-dipendenza” che sta spopolando trasversalmente – sia tra i vip che tra le persone comuni – ovunque?
«Lo psicoanalista Alexander Lowen – uno dei massimi studiosi del narcisismo – sosteneva che in poco tempo, in una società come la nostra, il fenomeno del narcisismo si sarebbe sviluppato ad una velocità supersonica. Inoltre, sosteneva che – nel nostro secolo – circa il 90/95 per cento della popolazione sarebbe stata affetta da narcisismo, soprattutto, di sesso maschile. Ecco, penso che questa moda del “selfie” sia un po’ questo».

C’è una foto scattata da un Suo illustre collega che avrebbe voluto, invece, realizzare? Inoltre, Lei ha lavorato ed immortalato tante personalità di spicco. Ha un ricordo particolare di qualcuno di loro che ci può raccontare?
«Tante. Quasi il 90 per cento, ad esempio, di quelle di Helmut Newton le avrei volute scattare io, essendo lui il mio preferito. Ma ce ne sono diverse, di altri fotografi, che avrei voluto fare. Invece, per quanto concerne un ricordo di una delle personalità che ho avuto modo d’incontrare e fotografare, mi viene in mente Moira Orfei. È stato bellissimo, perché siamo andati nella sua roulotte. Era enorme (perché è una di quelle che si aprono e diventano gigantesche), tutta rosa e con i pavimenti in marmo. Lei mi disse: “Vieni nel pomeriggio perché io la mattina mi alzo presto, ma – nel mentre che mi vesto, mi metto tutto questo trucco e mi sistemo i capelli – ci metto tutti i giorni mezza giornata per prepararmi”. Infatti, quando siamo arrivati, non abbiamo dovuto prepararla: era perfetta. Lei è una persona fantastica».

L’anno scorso – tra le altre cose – è stata impegnata in una Sua personale dal titolo “La Grande Bellezza”. Un omaggio, a Suo modo, al pluripremiato film di Paolo Sorrentino (tra cui il Premio Oscar come miglior film straniero) e, allo stesso tempo, segno evidente del suo legame stretto con il mondo del cinema. Cosa è per lei, appunto, la “grande bellezza”?
«Per quanto mi riguarda, la grande bellezza consiste nel coraggio di seguire le proprie inclinazioni, i propri talenti, senza aver paura di sbagliare e senza pretendere la perfezione. Questo perché, la paura della perfezione, ti blocca. La stessa perfezione, a sua volta, ti blocca. Perché, una volta raggiunta, hai finito. Quindi, è anche il coraggio di fare le cose, dandosi la chance di sbagliare e senza mortificarsi per gli sbagli. Anzi. Continuare ad andare avanti e poi, provare che – a volte – anche gli sbagli possono essere meglio della perfezione. La grande bellezza per me è questo. E poi, è anche il far trasparire la propria personalità, il proprio modo di essere, in ogni manifestazione. Infine, la “grandissima bellezza” sarebbe quella di riuscire a trasformare ciò che uno ha dentro, in una bellezza esteriore».

“L’aspetto delle cose varia secondo le emozioni; e così noi vediamo magia e bellezza in loro, ma, in realtà, magia e bellezza sono in noi”.
(Kahlil Gibran)

Per maggiori informazioni:
www.malenamazza.com

Rosy Merola – SinergicaMentis

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rosy Merola

Definisco il mio percorso professionale come un “volo pindarico” dalla Laurea in Economia e Commercio al Giornalismo. Giornalista pubblicista, Addetta stampa, Marketing&Communication Manager, Founder di SinergicaMentis. Da diversi anni mi occupo della redazione di articoli, note e recensioni di diverso contenuto. Per il percorso di studi fatto, tendenzialmente, mi occupo di tematiche economiche. Nello specifico, quando è possibile, mi piace mettere in evidenza il lato positivo del nostro Made in Italy, scrivendo delle eccellenze, start-up, e delle storie di uomini e donne che lo rendono speciale. Tuttavia, una tantum, confesso di cadere nella tentazione di scrivere qualcosa che esula dalla sfera economico-finanziaria (Mea Culpa!). Spaziando dall'arte, alla musica, ai libri, alla cultura in generale. Con un occhio di riguardo nei confronti dei giovani esordienti e di quelle realtà che mi piace definire "startup culturali". Perché, se c'è una frase che proprio non riesco a digerire è che: "La cultura non dà da mangiare". Una affermazione che non è ammissibile. Soprattutto in Italia.