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Lettera alla Politica

penna-stilografica

Cara “Politica”,

Innanzitutto, consentimi di darti del “tu”. Tanti secoli sono ormai trascorsi da quando Aristotele affermando – tra le altre cose – che “L’uomo è per natura un animale politico”, introdusse per la prima volta la tua definizione, collegata al termine greco πολιτικος (politikós, da “polis”, città). Scusami, non è mia intenzione essere pedante, lo so che ne sei al corrente. Tuttavia, come ben sai, repetita iuvant, ed in questo particolare frangente forse non fa male a nessuno ricordare che tu, “Politica”, dovresti essere intesa come un “arte” volta a governare, ad amministrare la “polis”.

L’uso del condizionale “dovresti” non è un caso, piuttosto diventa d’uopo, pensando a come una buona parte dei politici – eletti dai cittadini – stia da tempo amministrando la “res publica”. E nemmeno è un caso se, nell’incipit di questa missiva, ho citato Aristotele e, di conseguenza, la visione che aveva di te, “Politica”, quale fine della vita etica. Per il filosofo, bada bene, non gli dei o gli animali, ma l’uomo, come animale politico (zoòn politikòn), ha insito nella sua natura l’esigenza di associarsi, perché il singolo individuo non basta a sé stesso. Questa innata inclinazione lo porta ad una forma di aggregazione a più ampio respiro quale lo Stato, fine ultimo di tutte le forme di convivenza sociale.

Converrai con me che, con il passar del tempo, ci siamo discostati dal giusnaturalismo (ius naturale, “diritto di natura“) antico di aristotelica memoria avvicinandoci, forse, ad un qualcosa che in parte presenta alcuni elementi del cosiddetto “contrattualismo”, secondo il quale lo Stato è una convenzione fatta a tavolino dagli uomini, un contratto tra governati e governanti, che implica obblighi precisi per ambedue le parti. Ciò significa dire che il potere politico poggia su un contratto sociale, il cui fine ultimo dovrebbe essere il benessere della collettività.

Facendo un balzo temporale in avanti, prendendo in prestito da altre discipline concetti un po’ più attuali, il suddetto contratto sociale pone in essere un “rapporto d’agenzia” tra principale ed agente e, nel caso specifico, tra elettore (il principale, che in senso lato è il “mandante”, il titolare attivo del rapporto d’incarico) ed eletto (l’agente, ovverosia il “mandatario”, il titolare passivo che ha il compito di eseguire il compito affidatogli dal principale).

Per poter affermare che si è in presenza di un buon rapporto di “agenzia politica”, questo dovrebbe essere efficiente, vale a dire in grado di operare con costi contenuti, tempestivamente, con decisioni certe e non instabili. Allo stesso tempo, dovrebbe essere efficace, vale a dire in grado di percepire ed anticipare i desiderata dei principali (elettori-cittadini) ed agire di conseguenza. Infine, dovrebbe essere equo.

Come vedi, pensando alla situazione contingente, anche in questo caso il condizionale è d’obbligo. Secondo te, cara “Politica”, coloro i quali sono stati preposti dagli elettori-cittadini a governare, stanno agendo in maniera equa, efficace ed efficiente? Soffermiamoci sul concetto di efficienza, non è forse vero che, grazie ai politici, tu sei diventata “tanto cara”, nell’accezione economica del termine?

Per dovere di cronaca permettimi, mia “carissima”, di documentarti sinteticamente in merito: fra costi diretti (18,3 miliardi) e indiretti (6,4 miliardi), i “tuoi” costi ammontano a 24,7 miliardi, pari al 2% del Pil e al 12,6% del gettito Irpef (stando ai dati stimati dalla sigla sindacale della Uil). Probabilmente ti impressionerai leggendo i numeri che ruotano intorno a te: “Oltre 145mila tra parlamentari, ministri, amministratori locali di cui 1.032 parlamentari nazionali ed europei, ministri e sottosegretari; 1.366 presidenti, assessori e consiglieri regionali; 4.258 presidenti, assessori e consiglieri provinciali; 138.619 sindaci, assessori e consiglieri comunali. A questi vanno aggiunti gli oltre 12mila consiglieri circoscrizionali (8.845 nelle sole città capoluogo); 24mila persone nei consigli di amministrazione delle 7mila società, enti, consorzi, autorità di ambito partecipati dalle pubbliche amministrazioni; quasi 318mila persone che hanno un incarico o una consulenza elargita dalla pubblica amministrazione; la massa del personale di supporto politico addetto agli uffici di gabinetto dei ministri, sottosegretari, presidenti di Regione, Provincia, sindaci, assessori regionali, provinciali e comunali; i direttori generali, amministrativi e sanitari delle Asl; la moltitudine dei componenti dei consigli di amministrazione degli Ater e degli enti pubblici”.

Per non parlare poi dei privilegi della cosiddetta “Casta”: un deputato italiano guadagna 10.257, 84 euro netti al mese. Tale importo è dato dalla somma dell’indennità pari a 5.164,80 euro (al netto anche delle addizionali regionali e comunali), dei 3.503,11 euro della diaria, 1.331,70 euro per le spese di viaggio, 258,23 euro per le spese telefoniche. In riferimento all’assegno di mantenimento, nel Belpaese alla fine del mandato al parlamentare viene corrisposto l’80 per cento dell’importo mensile lordo dell’indennità per ogni anno di mandato effettivo. A cinque anni dalla conclusione del mandato incassa 46.814,56 euro, dopo 15 anni 140.443,68 euro. C’è da sottolineare che i suddetti importi non sono imponibili. Infine, ai suddetti importi, dobbiamo aggiungere l’assegno vitalizio: per i deputati italiani (sempre dopo 5 anni di mandato) il vitalizio scatta a 65 anni e può oscillare da un minimo del 20 per cento a un massimo del 60 per cento dell’indennità parlamentare a seconda degli anni di mandato: si va da 2.486,86 euro lordi al mese dopo 5 anni di mandato a 4.973,73 dopo 10 anni a 7.460,59 dopo 15 anni ( dati ricavati da uno studio riservato del Servizio per le Competenze dei parlamentari della Camera dei deputati, datato 31 marzo 2011). Nei suddetti privilegi, volendo, si possono individuare delle imperfezioni nell’ambito del rapporto d’agenzia elettore-eletto, dal punto di vista dell’efficacia. Infatti, i rappresentanti della Casta, sembrano essere più interessati a perseguire i propri interessi, piuttosto che tener presente i desiderata ed il benessere dei cittadini.

Sotto il profilo dell’equità, qualche dubbio in merito al suo perseguimento mi viene se penso alle modalità di applicazione del “Federalismo Fiscale”, un tema caldo, che da tempo infervora e spacca l’opinione pubblica italiana da nord a sud.

Correggimi se sbaglio, cara “Politica”, ma da quanto ho potuto approfondire, “federalismo fiscale” è la traduzione dell’inglese fiscal federalism dove l’aggettivo “fiscale” si riferisce non alla politica tributaria, ma alla politica di bilancio e riguarda quindi entrate e spese. Rappresenta una dottrina economico-politica che tende a stabilire una proporzionalità diretta fra le imposte riscosse in una determinata area territoriale del paese e le imposte effettivamente utilizzate dall’area stessa. In pratica, cerca di “comprendere quali tra le competenze e gli strumenti fiscali del governo dovrebbero essere centralizzate e quali dovrebbero essere poste nella sfera dei livelli decentrati” (Oates, 1999).

Nel corso degli anni, diversi sono stati gli interventi legislativi finalizzati all’attuazione del federalismo fiscale. Infatti, come tu “Politica” mi insegni, il nostro Paese, finora, è stato fondato sul regionalismo, ossia su un sistema basato su limitate autonomie delle Regioni, mentre allo Stato competeva tutto quanto non era esplicitamente delegato alle Regioni. Il concetto di federalismo fiscale, non era previsto dalla nostra Costituzione, fino a quando non si è proceduto alla riforma del titolo V operata con la legge cost. n. 3/2001, dall’art. 119 della Costituzione, che ne contiene i principi, ed è entrato in funzione a seguito dell’approvazione della Legge 42/2009 (quest’ultima dispone che le spese definite primarie siano finanziate con il gettito di tributi propri derivati, dell’addizionale regionale all’imposta sul reddito delle persone fisiche e della compartecipazione regionale all’IVA nonché con quote specifiche del fondo perequativo e con il gettito dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) fino alla data della sua sostituzione con altri tributi. Per le spese diverse da quelle essenziali, definite secondarie, è stabilito che queste siano finanziate con il gettito dei tributi propri e con quote del fondo perequativo alimentato dall’addizionale all’IRPEF).

Pur essendo convinta che sia giusto che ciascuna Regione si responsabilizzi nei confronti dell’amministrazione delle proprie risorse, mi chiedo e ti chiedo: “Esistono ragioni economiche per l’esistenza di diversi livelli di governo aventi competenza territoriale via via più ristretta?”

Secondo il federalismo fiscale tali ragioni economiche esistono e sono, più precisamente, ragioni di efficienza economica. Tuttavia, il rapporto tra organi del governo centrale e autonomie locali ha un profondo effetto sull’efficienza ed equità all’interno del governo e sulla stabilità macroeconomica del paese. Compito arduo è quello di cercare di trovare un giusto equilibrio tra efficienza economica ed equità sociale. Da che mondo è mondo, in tutti i Paesi ci sono regioni ricche e regioni povere. In tutti vi è la convinzione che ci debba essere un certo grado di solidarietà tra regioni, per cercare di sopperire, almeno in parte, al gap che le divide.

Mia cara “Politica”, questo succede anche qui da noi, dove le discussioni sul federalismo fiscale vertono proprio sul flusso di trasferimenti legati al meccanismo perequativo di solidarietà per redistribuire il gettito. Come sarai sicuramente al corrente, la spinta autonomista interessa soprattutto le regioni ricche del Nord Italia, dove ci si auspica che si verifichi una riduzione del flusso di risorse che dal Nord sono indirizzate al Sud, mediante le politiche del governo centrale.

“Politica”, converrai con me che, pur nel rispetto di tutte le opinioni, bisogna agire con molta cautela. Infatti i trasferimenti e le politiche, se non ben amministrate, potrebbero innestare una spirale di disuguaglianze, le cui conseguenze finirebbero per essere pagate dalle categorie di cittadini più deboli, poiché saranno i singoli Enti Locali che dovranno decidere le priorità. In particolare, l’assottigliarsi delle risorse a disposizioni delle Autonomie Locali, necessariamente, si andrebbe a ripercuotere negativamente sull’offerta di beni e servizi concernenti il Welfare in generale. Ciò determinerebbe effetti distorsivi, sia sotto il profilo dell’equità orizzontale (confronto tra individui in condizioni analoghe), che di quello dell’equità verticale (confronto tra individui in condizioni diverse).

Hai ragione, “Politica”, questo è un rischio che inevitabilmente andrebbe ad aggravare ulteriormente il divario tra Nord e Sud, generando un Italia a due o più velocità. E se mi permetti, questo è uno scenario inconcepibile da accettare.

Poiché mi rendo conto di essermi oltremodo prolungata, per non tediarti ulteriormente e rubare il tuo prezioso tempo, concludo confidandoti che mi piacerebbe se, fra qualche tempo, qualcuno scovasse un frammento simile al seguente:

“Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.
Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo così.
La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo. Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.
Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.
E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benchè in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.
Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.
Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così”.
(Discorso di Pericle agli Ateniesi, 461 a.C.)

Il suddetto testo dovrebbe avere una sola modifica: al posto della dicitura “Qui ad Atene noi facciamo così”, dovrebbe dire, “Noi a Roma (nel XXI secolo) facciamo così!”.

Cara “Politica”, hai ragione nel ritenere questo mio desiderio a dir poco utopistico ma, in questo periodo, difficile e sconfortante, ho bisogno di avere degli alti ideali a cui ispirarmi.

Cordialmente,

Rosy Merola – SinergicaMentis

Rosy Merola

Definisco il mio percorso professionale come un “volo pindarico” dalla Laurea in Economia e Commercio al Giornalismo. Giornalista pubblicista, Addetta stampa, Marketing&Communication Manager, Founder di SinergicaMentis. Da diversi anni mi occupo della redazione di articoli, note e recensioni di diverso contenuto. Per il percorso di studi fatto, tendenzialmente, mi occupo di tematiche economiche. Nello specifico, quando è possibile, mi piace mettere in evidenza il lato positivo del nostro Made in Italy, scrivendo delle eccellenze, start-up, e delle storie di uomini e donne che lo rendono speciale. Tuttavia, una tantum, confesso di cadere nella tentazione di scrivere qualcosa che esula dalla sfera economico-finanziaria (Mea Culpa!). Spaziando dall'arte, alla musica, ai libri, alla cultura in generale. Con un occhio di riguardo nei confronti dei giovani esordienti e di quelle realtà che mi piace definire "startup culturali". Perché, se c'è una frase che proprio non riesco a digerire è che: "La cultura non dà da mangiare". Una affermazione che non è ammissibile. Soprattutto in Italia.