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Agnelli-FIAT, croce e delizia nella storia italiana

fiat

La forza dell’economia italiana risiede, soprattutto, nelle piccole-medie imprese (PMI) che costituiscono la spina dorsale del nostro Paese. Tuttavia, il principale contributo a supporto della nostra bilancia commerciale viene dai quattro settori principali dell’industria manifatturiera, quelli che gli esperti definiscono le quattro A del Made in Italy: Automazione, Abbigliamento, Arredocase, Alimentari. Di questi macro-settori, quello che più di tutti ha condizionato nel tempo la storia dello sviluppo economico italiano, è il settore dell’Automazione (che incorpora i mezzi di trasporto finiti e le parti di autoveicoli).

Quando si pensa alle auto “Made in Italy” (oltre alla Ferrari), inevitabilmente il pensiero va alla “Fabbrica Italiana Automobili Torino”, in una parola F.I.A.T. Una storia ultra centenaria che trae la sua origine dalla passione per i motori del giovane Giovanni Agnelli (nonno del più famoso Avvocato Giovanni Agnelli). Infatti, l’intraprendente Agnelli, venuto a sapere delle intenzioni del Conte Emanuele Cacherano di Bricherasio di volere dare vita a una azienda per la fabbricazione di automobili, riesce a raggiungerlo e ad illustrargli le sue idee e i progetti da lui realizzati.  Così, il 1° luglio del 1899, nel palazzo Bricherasio in Via Lagrange a Torino, si giunse alla stipula dell’accordo per la nuova azienda e il conseguente atto notarile ad opera del notaio Torretta, siglato nella sede del Banco Sconto e Sete di Via Alfieri l’11 Luglio 1899, con il quale si diede il via alla “Fabbrica Italiana di Automobili”, che cambiò subito nome, diventando Fabbrica Italiana Automobili Torino, ovverosia: “F.I.A.T.” Oltre al Cav. Giovanni Agnelli e al Conte Emanuele Cacherano di Bricherasio, presenti alla firma dell’accordo anche il  Conte Roberto Biscaretti di Ruffia, Cav. Michele Ceriana,  Damevino sig. Luigi, Marchese Alfonso Ferrero di Ventimiglia, Avv. Cesare Goria Gatti, Avv. Carlo Racca, Cav. Ludovico Scarfiotti ed altre ventuno persone. L’azienda venne costituita con un capitale di 800.000 lire, suddiviso in 4.000 azioni di 200 lire ciascuna. Con Scarfiotti presidente e Agnelli amministratore delegato, la Fiat inizia la sua attività: “Siamo appena all’alba di un grandioso movimento di capitali, di masse, di lavoro. Mi sbaglierò, ma l’automobile segnerà l’inizio di un rinnovamento sociale dalle fondamenta”, così sosteneva Giovanni Agnelli (Senior) e non aveva torto.

Grazie all’automobile, la città di Torino cominciò a crescere. I dati dell’epoca evidenziano che, nel 1901, con una popolazione di 335.000 unita, gli operai addetti al ramo metalmeccanico erano circa 15.000. Dopo dieci anni, con una popolazione salita a 427.000 abitanti, i metalmeccanici superavano le 30.000 unità, metà dei quali impegnati nel settore automobilistico. Cominciarono a sorgere interi quartieri popolari, tra cui: il rione San Paolo che, dal 1901 al 1921, passò da 4.000 a 32.000 abitanti. Nonostante la presenza di diverse realtà nell’ambito dell’industria meccanica, la FIAT riuscì velocemente a sbaragliare la concorrenza, acquisendo quote di mercato sempre più ampie. I numeri relativi alla produzione parlano chiaro: su 3.080 auto fabbricate tra tutte le case italiane, nel 1904,  quelle prodotte dalla FIAT erano appena 268. Dieci anni dopo, la Casa torinese tocca quota 4.644 unità, oltre la metà di tutta la produzione nazionale. La suddetta escalation produttiva trovò il suo fondamento, essenzialmente, in due fattori:  l’intraprendenza di Giovanni Agnelli e la decisione di “fare come il Ford”.

Per quanto concerne il primo punto, a seguito di una prima fase di difficile sviluppo, contrassegnato da una serie di ricapitalizzazioni e da modifiche nella composizione del capitale azionario (una delle pagine nere nella storia della FIAT, sfociata in processi clamorosi per l’epoca. Nel giugno 1908, infatti, Giovanni Agnelli e i suoi soci furono rinviati a processo per illecita coalizione, falsificazione dei bilanci e aggiotaggio. Furono poi prosciolti dalle accuse solo quattro anni dopo e in un secondo processo l’anno successivo), la proprietà della casa automobilistica venne assunta quasi integralmente da Giovanni Agnelli (1906).

In merito al secondo fattore, grazie alla razionalizzazione del lavoro e all’applicazione parziale dei metodi tayloristici, la Casa torinese riuscì a fare, nel 1912, il “salto di qualità” attraverso l’introduzione della prima utilitaria Fiat prodotta in serie, la tipo “Zero”. La nuova nata di casa FIAT, venne lanciata sul mercato al prezzo di 8000 lire che, un anno dopo, passò a 6900 lire grazie all’ammortamento dei costi. In questo modo, si cominciarono a fare i primi passi volti alla razionalizzazione del processo di lavoro attraverso l’introduzione, anche se in forma embrionale, dei principi del taylorismo e del fordismo: ovverosia l’integrazione sistematica di quattro elementi: 1) “Time and Motion System” (l’individuazione del modo più efficace per svolgere una certa prestazione lavorativa); 2) “American System” (l’intercambiabilità dei pezzi); 3) “Jig System” (lo studio e la costruzione di apparecchiature ausiliarie necessarie per razionalizzare le lavorazioni meccaniche); 4) “Standardized and Synchronized System” (in sostanza la catena di montaggio). Oltre a ciò, gli industriali consideravano questa innovativa forma di organizzazione del lavoro, altresì, un’opportunità per ridimensionare il potere di intervento della classe operaia nei processi produttivi e la sua forza negoziale.[1] In realtà, già nel 1912, ai lavoratori era stato imposto un nuovo contratto di lavoro nettamente sfavorevole sotto il profilo delle garanzie. Infatti, il suddetto contratto  metteva al bando gli “scioperi impulsivi”, annullando le competenze delle Commissioni Interne, e cercando di imporre trattative individuali con l’azienda. Tutto ciò, generò un tale malcontento, il quale condusse ad uno sciopero durato 93 giorni, nel 1913, a seguito del quale la FIOM ottenne il diritto di rappresentanza dei lavoratori e il riconoscimento della contrattazione collettiva.

Nonostante il 1913 si fosse concluso con dei risultati positivi, già negli ultimi mesi dell’anno, dal mercato automobilistico si cominciarono ad avere dei segnali non molto rassicuranti: “Dalla seconda metà del 1913 avevano cominciato a farsi sentire con più intensità i venti freddi della concorrenza straniera, specialmente dell’industria americana ormai in grado di sfornare mezzo milione di vetture all’anno. Da allora le vendite erano rallentate e le esportazioni della FIAT avevano subito un forte calo. Perciò la domanda connessa alla motorizzazione pubblica, ed in particolare a quella militare, era l’unico fattore che consentisse una crescita della produzione tale da assicurare concreti vantaggi dimensionali e quindi reali economie di scala”[2].

Fu proprio lo scoppio della Grande Guerra a dare una forte spinta propulsiva ai “sovraprofitti di guerra” (come vennero definiti all’epoca) della Casa torinese, grazie alle commesse belliche. Così, nel settembre 1914, iniziarono ad arrivare i primi ordinativi: 1.700 autoveicoli militari (soprattutto camion 18 BL per l’esercito). Nell’arco del conflitto bellico la produzione raggiunse i 56.000 veicoli e il numero degli operai impegnati salì alle 40.000 unità. In questo modo, nel 1917 il patrimonio personale di Agnelli era stimato intorno ai 50 milioni, con una quota di capitale della FIAT pari al 10,4%[3]. Alla fine della conflitto, la Casa torinese era diventata un impero industriale e finanziario sullo scenario nazionale. Ciò rese necessario la messa in opera di una nuova fabbrica più grande, dato che gli stabilimenti di corso Dante, ormai non era più in grado di far fronte, da soli, a tutto il volume di produzione. Tra il 1916 e il 1919, quindi, si assistette alla nascita del nuovo stabilimento: il Lingotto, che ebbe il primato di essere la prima fabbrica europea di automobili progettata e organizzata per la produzione industriale di massa. In questo modo, con Giovanni Agnelli che diventa il Presidente nel 1920 e con l’inaugurazione del Lingotto nel 1923, comincia la nuova era della FIAT.

Tuttavia, nonostante l’Italia fosse uscita vittoriosa dalla Grande Guerra, venne messa in ginocchio dal dopoguerra. L’ambizioso neo presidente, ben consapevole del fatto che potere politico ed economico devono procedere all’unisono se non si vogliono annullare a vicenda,  arrivò a sostenere che, “Noi industriali siamo ministeriali per definizione” e ancora, “Con chiunque, purché questo coincida col bene dell’universo (cioè della Fiat)”. E così, quando Mussolini arrivò al potere, tra i due si instaurò un clima di “reciproca cortesia”. L’appoggio al regime fascista fece prosperare la FIAT. Infatti, grazie ad esso, la Casa automobilistica riuscì a ripristinare la “pace sociale” in fabbrica e ad usufruire di politiche protezionistiche e commesse statali.

Come era scritto su una pubblicazione della FIAT degli Anni Trenta, “Il tempo sinistro del sovversivismo distruttore, che da noi culminò nell’episodio tragico dell’occupazione delle fabbriche, è passato per sempre… Sorse Mussolini, il liberatore e il ricostruttore, e l’Italia che non poteva morire fu tutta con lui”. Nello specifico, la “tranquillità” nelle fabbriche fu garantita, innanzitutto, dal Patto di Palazzo Vidoni, siglato da Governo e Confindustria il 2 ottobre 1924, il quale stabiliva lo scioglimento delle Commissioni Interne ed attribuiva alle corporazioni fasciste l’esclusiva della rappresentanza sindacale. Inoltre, dal 1929 venne introdotto nella fabbriche il cosiddetto “sistema Bedaux” (controllo cronometrico delle lavoro), che rendeva possibile l’intensificazione dei ritmi di produzione ed una consistente riduzione dei cottimi. In questo modo, dalla metà degli anni Trenta, la  FIAT conobbe una crescita esponenziale mediante le commesse militari. In particolare, dopo un anno circa dell’invasione italiana dell’Etiopia (3 ottobre 1935), il fatturato della FIAT passò da 750 milioni a 1 miliardo e 400 milioni (avrebbe superato i 2 miliardi nel 1937), mentre la manodopera toccò le 50.000 unità.

Fu lo scoppio della seconda guerra mondiale, però,  ad incidere significativamente sugl’introiti della FIAT: nel primo trimestre del 1940, il fatturato aveva registrato un aumento rispetto allo stesso periodo del 1939 pari a + 166 milioni di lire.[4] Ciò fu determinato dalle maggiori esportazioni di camions, velivoli, motori d’aviazione.

Tuttavia, ogni moneta ha la sua doppia faccia così dopo i benefici, la Casa torinese si trovò a dovere pagare lo scotto per le scelte fatte, che avrebbero condotto alla fine di un’era.  Infatti, il 23 febbraio 1943 Giovanni Agnelli diede le sue dimissioni, lasciando la carica di amministratore delegato e allo stesso tempo, propose al Consiglio di Amministrazione di fare entrare il nipote Gianni “nella famiglia della FIAT”. Dopo vent’anni di “pace forzata” imposta dal regime fascista, nelle fabbriche cominciarono, a partire dal 5 marzo,  una serie di agitazioni da parte degli operai che, dall’11 marzo si estese a tutti gli stabilimenti. Le agitazioni si intensificarono tra marzo e novembre del 1944, generando dure rappresaglie, fino a giungere, all’atto finale – nell’aprile 1945 – quando gli operai assunsero il controllo della FIAT. Il 28 dello stesso mese, fu annunciata via radio l’apertura di un procedimento di epurazione nei confronti di Agnelli e Valletta. Questo condusse, nei primi giorni di maggio, all’insediamento di quattro commissari nominati dal CLN che, coadiuvati da un Comitato di gestione espresso dagli operai, guidarono la FIAT fino alla conclusione positiva della procedura di epurazione. A quel punto, essendo Giovanni Agnelli scomparso nel dicembre 1945, al timone fu richiamato Valletta, il quale riuscì a risollevare l’azienda, facendola prosperare fino all’ingresso, nella stanza dei bottoni, nel 1966, del giovane discendente “primo in linea dinastica”[5], Gianni Agnelli, anno in cui gli fu conferito l’incarico di Presidente.

Tuttavia, per il giovane Agnelli, la conduzione non sarà per nulla semplice, dovendosi scontrare con uno dei momenti più critici del capitalismo italiano, caratterizzato dalla contestazione studentesca prima e delle lotte operaie poi: Sono gli anni dei cosiddetti “autunni caldi”, caratterizzati da una serie di scioperi e di proteste che, in concomitanza con la crisi economica che imperversava in quegli anni, misero in seria difficoltà la Fiat. Alla fine degli anni ’70, per arginare i danni, la FIAT  cominciò a prospettare il possibile licenziamento di quattordicimila operai. Questo portò ad una dura fase di scontro sindacale (basti pensare al famoso sciopero dei 35 giorni). Le suddette lotte dell’”autunno caldo” portarono, tuttavia,  a delle conquiste importanti: il rinnovo del contratto dei metalmeccanici (nel dicembre 1969), lo Statuto dei lavoratori (1970) ed il riconoscimento dei Consigli di fabbrica (1971).

Intanto, in casa FIAT, faceva il suo ingresso ai vertici del Lingotto, nel gennaio del 1970, Umberto Agnelli che andò ad affiancare, come amministratore delegato della FIAT, l’ing. Bono (destinato a dimettersi dalla carica l’anno successivo). Sempre nel 1970, fu inaugurato lo stabilimento di Termini Imerese e si decide di avviare la costruzione di nuovi stabilimenti al sud (Cassino, Termoli, Bari, Sulmona, Vasto, Lecce, Nardò e Brindisi. Ad incidere negativamente su tutto il settore automobilistico, anche la crisi petrolifera del 1973, che colpì in modo significativo la FIAT.

Infatti, per la prima volta da anni, il bilancio del 1973 si chiuse in perdita e, il 2 ottobre 1974, la FIAT mise in cassa integrazione 65.000 operai. Parallelamente, al fine di ristrutturare il debito (quelli a breve ammontavano a 1.800 miliardi), fu assunto Cesare Romiti. Intanto, la situazione del mercato dell’auto, continuava ad essere critica. Nel 1975, le vendite subirono una flessione del 25%, e la FIAT precipitò al 10° posto tra i produttori automobilistici mondiali. Il trend negativo del settore auto proseguì per tutti gli anni ’70, per poi assumere dimensioni mondiali nel 1980.

In quell’anno, l’indebitamento della FIAT toccò quota 6.800 miliardi di Lire, pari circa a fatto e oltre al doppio del patrimonio netto. Nel mese luglio, Umberto Agnelli rassegnò le proprie dimissioni da amministratore delegato.  Al suo posto si insediò Romiti che, l’11 settembre, annunciò 14.469 licenziamenti (trasformato poi in cassa integrazione a zero ore per 23.000 lavoratori per due anni). Iniziarono, così, i giorni più duri della lotta operaia, il cui centro nevralgico fu caratterizzato dalla Fiat di Mirafiori, da cui scaturì lo sciopero di 35 giorni con blocco degli stabilimenti. Tuttavia, questa agitazione si concluse con una bruciante sconfitta a causa, anche, della marcia dei colletti bianchi della FIAT, il 14 ottobre 1980, data che segnò un punto di rottura nella storia delle lotte sindacali in Italia.

Infatti, per la prima volta nella storia delle lotte dei lavoratori, ad alzare la voce fu la compagine più silenziosa dell’industria: gl’impiegati. Ciò, condizionò per sempre i rapporti tra lavoratori, sindacati e azienda. Gl’impiegati in 40.000, esasperati da cinque mesi di proteste e scioperi, decisero di scendere in piazza contro gli operai, impedendo il raggiungimento di un accordo tra FIAT e sindacati che prevedeva la cassa integrazione a rotazione, voluta da governo e sindacati, a favore degli operai. L’azione dei colletti bianchi fu un colpo di scena che nessuno si aspettava. Una débâcle del sindacato e della lotta operaia. Per la Fiat, questa fu una svolta decisiva. Il binomio Agnelli-Cesare Romiti, riuscì a rilanciare la Fiat in campo internazionale, facendola diventare una holding con interessi diversificati, che andavano dal settore dell’auto (in cui la Fiat aveva assorbito anche l’Alfa Romeo e la Ferrari), all’editoria, alle assicurazioni.

Quindi, già nel 1983, la Casa torinese cominciò ad uscire dalla crisi, grazie al successo della “Uno” (400 mila vetture vendute). Nel 1984 ritornò a scalare la vetta delle vendite, ritornando ad essere prima per vendite in Europa. In questo modo, nel 1985, l’utile consolidato salì a 1.682 miliardi di lire, e l’anno successivo giunse a 30.000 miliardi, con un ritorno sul capitale proprio addirittura del 45,5%. Nell’ ’87, il gruppo FIAT, con circa 750 società controllate, totalizzava il 4% del PIL nazionale. Tuttavia, il trend positivo della FIAT era destinato ad avere un’inversione di tendenza negli anni ’90. Il Lingotto, cominciò a perdere terreno, sia sul mercato nazionale che su quello europeo. Non agevolò di certo la situazione, la libera circolazione delle merci posta in essere dalla Comunità Europea nel 1993. Il venir meno delle politiche protezionistiche, che fino a quel momento avevano caratterizzato la vita della FIAT, non tardò a farsi sentire: la quota sul mercato europeo si ridusse al 12%, registrando perdite per oltre 1.800 miliardi. Ciò, fece scaturire il bisogno di una importante ricapitalizzazione della FIAT, pari a 4.285 miliardi, guidata da Mediobanca, che consentì l’ingresso nell’azionariato FIAT nuovi azionisti, tra cui la stessa Mediobanca, Deutsche Bank, le Generali e Alcatel. Contemporaneamente, Romiti cercò di far fronte al difficile momento, continuando con la “diversificazione” del gruppo, facendo appello allo “stato di crisi”; licenziando persone che erano in azienda da molto tempo, per procedere all’assunzione di giovani in contratto di formazione-lavoro, così da poterli pagare di meno e aprendo nuovi stabilimenti nel sud (Melfi e Pratola Serra), al fine di poter usufruire dei previsti contributi pubblici (basti pensare ai 1.350 miliardi di lire)[6]. Nonostante ciò, le vendite della FIAT dopo una breve ripresa, complice l’effetto della svalutazione della Lira (1992), tornarono a crollare, al punto tale che fu necessario l’intervento del Governo, attraverso la “rottamazione” del 1996, decisa da Prodi e Bersani. E, mentre l’esecutivo approvava, per l’ennesima volta, gl’incentivi a favore del mercato nazionale dell’auto, la FIAT procedeva alla dislocazione della produzioni all’estero (con la conseguenza che, nel 2001, il 66% del fatturato era realizzato fuori dai confini nazionali contro il  44% del 1990; più del 50% della forza-lavoro operava fuori d’Italia, rispetto al 22% del 1990, mentre all’estero era fabbricato il 47% delle auto venivano prodotte all’estero, rispetto al 17% del 1990).[7]

Inoltre, a fine anni ’90, nel 1998, un altro cambio ai vertici della FIAT. Paolo Fresco prende il posto di Romiti, diventando presidente della FIAT a Romiti (che a sua volta ne aveva assunto la carica nel 1996, al posto di Gianni Agnelli, divenuto presidente onorario), e, a causa della situazione delicata in cui si trovava nel 2000 il Lingotto, stipula un accordo con la General Motors, il quale prevedeva la cessione del 20% di FIAT Auto, e l’opzione a comprare il restante 80% nel 2004.

Nonostante ciò, la situazione del Lingotto, con l’avvento del nuovo secolo, non era destinata a migliorare. Infatti, se il 2001 si era concluso in negativo, peggio andò nel 2002:  la posizione debitoria del gruppo FIAT  era arrivata a toccare i 35,5 miliardi di euro.  Tra i creditori più esposti, ovviamente, vi erano  le banche italiane, per un importo pari a 8,4 miliardi di euro[8]. Urge correre ai ripari, mediante una operazione di ristrutturazione del debito della Casa torinese ad opera delle banche (Sanpaolo, Intesa, Bancaroma, Unicredito), le quali procedono allungando a 3 anni i termini di scadenza di 3 miliardi di euro di debiti a breve. Inoltre, le condizioni di allungamento dei tempi prevedeva che, se questi non fossero state rispettati, le banche avrebbero potuto trasformare i loro crediti in azioni della società. Questo rese necessario la definizione di un nuovo  Piano Industriale, il quale includeva misure drastiche, quali il licenziamento di  3.800 persone.  Tuttavia, la situazione precipitò nel giro di poco tempo e, il 9 ottobre, il Lingotto si rivolse all’esecutivo, invocando lo “stato di crisi”.  I dati parlano chiaro, nonostante tutto,  la fase ascendente del Gruppo non tende ad arrestarsi, che continua a perdere quote di mercato e fiducia, al punto tale che, il 23 dicembre 2002, le principali agenzie di rating internazionali  procedono tagliando il rating della FIAT, portando i suoi titoli al livello “spazzatura” (junk). Quasi a voler sancire questo declino, il 24 gennaio 2003 Gianni Agnelli, dopo una lunga malattia si spegne. E, sempre nel 2003, la criticità della situazione fa sì che Umberto, fratello di Gianni, assuma la presidenza della FIAT. Tuttavia, la sua scomparsa l’anno dopo, porta alla guida del timone, Luca Cordero di Montezemolo e, contestualmente,  l’erede designato dalla famiglia Agnelli, John Elkann, viene nominato vice presidente all’età di 28 anni. Inoltre, si procede anche alla sostituzione del dimissionario Amministratore Delegato, Giuseppe Morchio, il cui posto viene occupato da Sergio Marchionne che, nel giro di soli tre anni, riesce a risanare l’Azienda, portandola a raggiungere il più alto livello di utile nella storia del Lingotto. Così, Marchionne, con il suo stile “pullover blu”, diventa l’uomo simbolo della FIAT post Agnelli. Il nuovo Amministratore Delegato, per attaccare meglio il mercato dell’auto, procede a suddividere il gruppo: da una parte Fiat Auto, dall’altra tutto il resto. Un’altra mossa importante, nell’ottica della Casa torinese, è la trattativa con General Motors, che porta, alle casse della FIAT, 2 miliardi di dollari per l’estinzione del diritto di acquisto dei suoi titoli. Inoltre, al fine di ridurre l’esposizione della FIAT nei confronti delle banche, Marchionne propone la conversione dei debiti in azioni,  collocandole, poi, presso gli istituti finanziari. Proceduto a risanare il bilancio del Lingotto, occorreva consolidarlo. Così, viene elaborato un piano produttivo che prevedeva il lancio di diversi modelli d’auto: la nuova Cinquecento, la Grande Punto, le nuove linee della Lancia ed Alfa Romeo. Inoltre, per far crescere il gruppo, secondo Marchionne, occorreva guardare all’estero. E, in quest’ottica, viene inserita l’acquisizione della Chrysler. “Fiat e Chrysler devono vivere e crescere insieme come un’unica famiglia. Devono sentirsi libere e stimolate nel mettere in comune le cose che sanno, con la coscienza che è l’unica via per impararne di nuove. Due culture che si uniscono e che costituiscono la miglior garanzia del nostro successo”, ha detto di recente Marchionne.[9] L’Amministratore delegato, riferendosi al delicato momento che sta attraversando il nostro Paese, sottolinea che, “Delocalizzare le attività industriali, misura di difesa spesso usata per affrontare la guerra sui prezzi, credo sia una strategia molto pericolosa. Chi la segue deve essere consapevole degli effetti che provoca sul territorio di origine in termini di perdita di posti di lavoro, di competenze e stabilità economica”[10].  E aggiunge, “Tutti quanti dovremmo ricordare l’obbligo morale che è collegato al fare impresa, e il dovere che abbiamo di contribuire al disegno di crescita dei nostri Paesi. Questo è l’impegno che abbiamo preso con la Fiat, in Italia, e con Chrysler negli Stati Uniti. Un impegno che vuol dire rispettare la storia delle nostre due aziende e delle comunità che le hanno viste nascere e ne hanno accompagnato lo sviluppo”[11]. In merito al mercato, l’Ad della FIAT, evidenzia che, “A volte accade che le grandi conquiste portino ad avere effetti diversi da quelli attesi e così sta succedendo con il nostro welfare state. Un sistema di protezione del lavoro e dei lavoratori pensato per aiutare i più deboli, che per molti anni è stato indicato e preso a esempio, ha perso la sua efficacia. Le regole di oggi non ci proteggono dalla crisi e non hanno la capacità di gestire i cambiamenti a livello mondiale”[12]. Tuttavia, Marchionne non risparmia una stoccatina alle parti sociali, affermando, “Oggi viviamo nell’epoca dei diritti: al posto fisso, al salario garantito, al lavoro sotto casa, a urlare, sfilare e pretendere. Diritti sacrosanti, che vanno tutelati, ma se continuiamo a vivere di soli diritti, di diritti moriremo. Per questo il manager invita a “tornare a un sano senso del dovere, alla consapevolezza che per avere bisogna anche dare”[13]. Infine, in merito alla situazione attuale della FIAT e del mercato dell’auto, i dati di marzo 2012 sono davvero allarmanti: pur restando in vetta al nostro mercato, i Lingotto ha perso addirittura il 35.6% di immatricolazioni, mentre l’intero mercato ha registrato una flessione del 26.7%. A tal riguardo, l’Amministratore delegato della FIAT ha spiegato che il suddetto crollo “non è colpa solo dello sciopero delle bisarche”,  ma  che “bisogna fare la riforma del lavoro, non c’é alternativa”. “So bene che la modifica dell’articolo 18 e’ un problema molto delicato perché riflette il desiderio di una parte del paese di mantenere le cose come ma anche una spinta enorme al cambiamento, a rendere l’Italia competitiva, ci viene da parte dei mercati finanziari e dai paesi che stanno finanziando l’Italia“, ha concluso Marchionne.

I “corsi e i ricorsi storici” percorsi in questo breve approfondimento, ci inducono a concludere che facile, senza interventi statali, il mercato dell’auto (sia Nazionale che Estero), non è in grado di sorreggersi da solo. Tuttavia, nonostante l’importanza economica del suddetto settore, bisogna tener presente che gli aiuti, le sovvenzioni non possono e non devono durare in eterno. Urge al più presto avviare un percorso di ristrutturazione, anche se il cammino si prospetta arduo e con sacrifici da compiere.

FONTI: [1] V. V. Castronovo, FIAT 1899-1999. Un secolo di storia italiana, Milano, Rizzoli, 1999, p. 74).

[2] V. Castronovo, cit., pp. 83-84.

[3] G. Mori, “La Fiat dalle origini al 1918″, in Il capitalismo industriale in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 131-2.

[4] Documento interno della FIAT, cit. in Castronovo, p. 583.

[5] Definizione attribuita ad Indro Montanelli.

[6] Castronovo, p. 1665.

[7] Dati FIAT, 20/2/2002.

[8] Dati estrapolati da un articolo de “Il Sole 24 Ore”,  del 5/6/2002.

[9], [10], [11], [12],[13]  Articolo del 31/03/2012, 31/03/2012 – “Bisogna saper cambiare troppe tutele frenano l’Italia” , Teodoro Chiarelli, lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/448484/

Inoltre, sono stati consultati anche: 1) L’automobile italiana dal 1918 al 1943, di Alberto Bellucci – Ed.Laterza, Bari 1984; 2) Agnelli, di Valerio Castronovo – Ed. UTET, Torino 1971; 3) L’industria italiana dall’ottocento a oggi, di Valerio Castronovo – Ed. Mondadori, Milano 1980; 4) Il capitalismo industriale in Italia, di Giorgio Mori – Ed. Editori Riuniti, Roma 1977;  5) L’industria italiana nel mercato mondiale dalla fine dell’Ottocento alla metà del Novecento, di AA.VV.; 6) Fiat Relazioni Esterne e Comunicazioni, Torino 1993.

Rosy MerolaSinergicaMentis

Rosy Merola

Definisco il mio percorso professionale come un “volo pindarico” dalla Laurea in Economia e Commercio al Giornalismo. Giornalista pubblicista, Addetta stampa, Marketing&Communication Manager, Founder di SinergicaMentis. Da diversi anni mi occupo della redazione di articoli, note e recensioni di diverso contenuto. Per il percorso di studi fatto, tendenzialmente, mi occupo di tematiche economiche. Nello specifico, quando è possibile, mi piace mettere in evidenza il lato positivo del nostro Made in Italy, scrivendo delle eccellenze, start-up, e delle storie di uomini e donne che lo rendono speciale. Tuttavia, una tantum, confesso di cadere nella tentazione di scrivere qualcosa che esula dalla sfera economico-finanziaria (Mea Culpa!). Spaziando dall'arte, alla musica, ai libri, alla cultura in generale. Con un occhio di riguardo nei confronti dei giovani esordienti e di quelle realtà che mi piace definire "startup culturali". Perché, se c'è una frase che proprio non riesco a digerire è che: "La cultura non dà da mangiare". Una affermazione che non è ammissibile. Soprattutto in Italia.